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protest songs
di Fabio Cerbone (01/04/2019)
Lo stato dell’Unione secondo
Jay Farrar, anno di grazia 2019. Dopo il nostalgico riposo nella tradizione
country di Hony Tonk, uno dei lavori più fiacchi della loro carriera,
e le Notes
of Blue di vaga ispirazione "mississippiana", la
voce per eccellenza del rock provinciale americano torna alla fonte che
ha animato la sua scrittura fin dagli anni giovanili, a quell’anima folk
ribelle e proletaria che covava sotto le ceneri negli Uncle Tupelo, e
che nel corso delle stagioni è sempre riaffiorata nelle pubblicazioni
a nome Son Volt. Facile riannodare i fili di Union,
per esempio, con la fierezza di un album sottovalutato come Okemah and
the Melody of Riot (2005), perché dietro si allunga ancora l’ombra imponente
di Woody Guthrie, guida spirituale di molte delle nuove composizioni,
faro per illumunare la lunga traversata di un’America dissociata, divisa
e in tumulto, assediata da fantasmi che non se ne sono mai andati dalla
scena.
Inciso in parte, con l’ausilio di uno studio mobile, presso il Woody Guthrie
Center di Tulsa, Oklahoma e al Mother Jones Museum di Mount Olive, Illinois
(Mary Harris “Mother Jones” fu una storica attivista del sindacato e fondatrice
degli Industrial Workers of the World), Union elegge luoghi emblematici
per trarne una sorta di spinta rigeneratrice per la band stessa (Mark
Spencer e Andrew DuPlantis le conferme, il chitarrista Chris Frame l’ultimo
arrivato, sebbene si tratti di un ritorno), là dove Farrar e compagni
tentano di immergersi nel grande fiume della tradizione alla ricerca di
qualche risposta da contrapporre all’odio e alla confusione di questi
giorni. La commovente chiusura con The Symbol,
ballata dal tepore acustico e quintessenza del sound alt-country di casa,
è una derivazione diretta di questa cura: il modello è, per stessa ammissione
di Jay Farrar, Plane Wreck at Los Gatos di Guthrie, mentre il racconto
in musica narra la vicenda di un immigrato messicano che ha contribuito
alla ricostruzione di New Orleans dopo l’uragano Katrina, e adesso si
vede braccato e respinto dal nuovo ordine americano.
È soltanto il sigillo finale apposto a un disco dalle tonalità bluastre
e politiche, nel senso più nobile e fiero del termine: la tenace corazza
blues di Broadsides e il suo diretto
richiamo all’esperienza dell’omonima rivista, megafono del movimento folk
del Village nei 60s; il clamore della protesta e l’impotenza che monta
nell’animo di The 99, speculare faccia
rock dell’iniziale While Rome Burns, più dolce nel portamento e
classica lezione figlia di quell’annuncio roots giunto anni fa dal profondo
Midwest, qui ribadito anche da Reality Winner,
che fin nel titolo fa riferimento esplicito all’omonima figura dell’Intelligence
americana, accusata e poi condannata per avere sottratto dei report secretati
sull’influenza russa durante le elezioni presidenziali del 2016. Tra una
scarna title track, che avanza austera nella sua trama folk blues, instillata
dal pensiero del padre James Paul ‘Pops’ Farrar, e stralci di canzone
che sembrano legare insieme personale e sociale (Devil
May Care, accogliente al primo istante, The Reason,
Slow Burn), Union non stravolge affatto la sceneggiatura
dei Son Volt, né tanto meno il racconto musicale sin qui riconoscibilissimo,
eppure nella chiarezza degli intenti, nel coraggio delle parole rivela
una seconda giovinezza per la band.
Emergono passaggi di autentica brillantezza alternative country, gli stessi
che sembrano rimandare ai tempi di Trace e Straightaways, quando i Son
Volt erano la punta di diamante di una “rivoluzione” silenziosa, rock
delle radici dall’immensa distesa americana. Oggi Jay Farrar ha
superato i cinquant’anni, si è indurito pelle e anima, ma ha saputo tenere
insieme il gruppo, gli ha fornito ancora un senso e soprattutto non ha
perso quella malinconia aspra e ribelle che scaturisce dalla sua voce,
quando si chiede con un tono di angoscia “Lady Liberty, are you still
here?”.