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Under: From Nola to L.A.
di Fabio Cerbone (13/05/2019)
Non
è mai stato un musicista di stretta osservanza blues Anders Osborne,
nonostante lo si possa trovare classificato sotto tale dicitura anche
sulla più famosa enciclopedia musicale della rete. Per questo motivo,
non deve ingannare il titolo del suo nuovo album, Buddah and the
Blues, che ci consegna l’autore e chitarrista di origini svedesi
sotto una veste più meditativa, alla ricerca di un sound che dalle sue
speziate radici sudiste (New Orleans ormai la sua casa adottiva, dove
è divenuto nel tempo una sorta di beniamino locale) si sposta verso la
solarità della California, lì dove il disco è stato inciso (presso il
Brethren Studio di Ojai) con uno stuolo di grandi turnisti.
Da un certo punto di vista è un ritorno alle origini, prima metà degli
anni Novanta, quando il suo nome si fece largo fra le maglie della canzone
roots dell’epoca con i ritmi e la bella scrittura di Which Way to Here:
Buddah and the Blues ne richiama a tratti la spigliatezza elettro-acustica
e l’idea di fare incontrare le fondamenta blues con la migliore canzone
rock d’autore, seppure oggi riletta con la sensibilità di musicisti eccezionali
come Waddy Wachtel alle chitarre, Bob Glaub al basso e Benmont Tench (Tom
Petty and the Heartbreakers) alle tastiere. Sono loro, di comune accordo
con il lavoro di produzione affidato al batterista Chad Cromwell (collaboratore
storico di Neil Young), a spingere Osborne in una direzione meno jammata
e virtuosa, lasciando in disparte la ferocia del suo strumento (cosa che
avveniva invece nei dischi registrati per la Alligator a metà dello scorso
decennio) per abbracciare le riflessioni mature di Alone
(qui proposta in due versioni, con la chiusura in chiave unplugged), i
toni agrodolci e acustici della stessa title track o di Fields of Honey,
quelli soulful e dichiaratamente californiani di Aching for Your Love
e Traveling With Friends, che solcano
territori non molto distanti rispettivamente da Jackson Browne e Tom Petty.
Lascerà un po’ di amaro in bocca a chi era abituato ai sapori piccanti
del gumbo della Louisiana e al rock blues arcigno che faceva emergere
la voce di Anders Osborne in passato, anche se i leggeri rintocchi di
slide che attraversano il riff circolare della ballata elettrica Running
o ancor di più le vibrazioni ritmiche tutto groove di Escape
non rinengano affatto quel percorso. Innegabile tuttavia che in questa
occasione il nostro Anders – e in verità con un percorso che era già iniziato
nel laid back del precedente, ignorato Spacedust & Oceanviews –
abbia sentito l’esigenza di una conversazione con se stesso, di una visione,
dice lui, che fosse più “pulita” e classica. Ci è riuscito, magari "addomesticando"
un po’ il suo approccio, coerente con quella fase della sua carriera che
lo ha visto fondare una propria etichetta personale e scegliere una strada
che guarda al tempo che passa, alla famiglia, ai valori che rendono la
vita degna di essere vissuta fino in fondo, errori compresi.