«Lo stato dell’arte», lo
stato dell’unione, lo stato delle cose: scegliete voi quale sia la dicitura
più adatta a un disco del genere, ma soprattutto ascoltatelo e diffondetelo,
promuovetelo e sostenetene l’artefice, perché in termini di canzone d’autore,
di una drammaturgia sonora in grado di raccontare la vulnerabilità della
vita quotidiana senza semplificarne la complessità o banalizzarne il tormento,
difficilmente si può fare meglio di così.
The Horses And The Hounds, opera numero dieci del texano James
McMurtry, sembra proprio essere la sua cosa migliore dai tempi del
secondo Candyland (1992), più “musicale”, più immediato, umano
e sofferto rispetto alle monocordi, grigie ballate dell’ultimo e comunque
ottimo Complicated
Game (2015), attraversato dall’esacerbarsi di una venatura
tragica (a sua volta stemperata da un’ironia pungente e da una sconfinata
empatia verso le sofferenze delle persone comuni) in tutto e per tutto
degna della forza narrativa dello scomparso Larry McMurtry, romanziere
capace di assecondare il gusto popolare senza rinunciare alla ricerca
e alla qualità letteraria esattamente come il figlio sa suonare istintivo,
rockinrollista e sferzante senza compromettere lo struggimento e l’eleganza
del dettato lirico. Nei brani di McMurtry, popolati da tradimenti e rimorsi,
personaggi abituati a impantanarsi nello squallore, nelle relazioni sbagliate,
nell’alcol, nella rabbia interiorizzata o lasciata scoppiare, ogni strofa
rappresenta un caso esemplare di scrittura, sia che si tratti della descrizione
del suicidio di una donna sola, messa in scena ricorrendo al violino da
brividi della dolente Jackie, sia
nella radiografia di strategie e maldestre manovre militari contenute
nella caustica Operation Never Mind.
Se i toni paiono in qualche occasione alleggerirsi, sebbene la velenosità
delle notazioni politiche affidate al rock and roll epico e sulfureo di
Ft. Walton Wake-Up Call non sia inferiore a quella di una We
Can’t Make It Here (dal roccioso Childish Things, album del
2005), lo si deve non solo al feeling californiano inseguito da McMurtry,
per sua ammissione influenzato dagli album targati ’70 di Warren Zevon,
ma al formidabile lavoro di squadra di un gruppo di musicisti dove spiccano
la sei corde del fidato David Grissom e quella del corregionale
Charlie Sexton (ascoltateli affiancarsi nel poema elettroacustico dell’iniziale,
bellissima Canola Fields), nonché
le tastiere di Bukka Allen (memorabile nel racconto d’amicizia perduta
di Decent Man) e le percussioni di Kenny Aronoff (stupendo ovunque
benché mai come nel tiro stonesiano di una What’s The Matter da
accostare ai ruggiti del John Mellencamp di Scarecrow [1985]).
Consapevole di come lo sguardo personale - percezione frammentaria e incompleta
quando non ingannevole della realtà - non basti a descrivere il disastro
della vita di tutti i giorni, McMurtry, oltre a reclutare un produttore
classico dello spessore di Ross Hogarth (Ozzy Osbourne, John Fogerty,
Van Halen, Keb’ Mo’), si circonda di colleghi e di co-autori coi quali
confezionare il melodramma spagnoleggiante della solenne Vaquero,
la parata elettrica dell’ultima Blackberry Winter e il terrificante
rap-blues della spettacolare If It Don’t Bleed,
quest’ultima incorniciata da uno dei versi più significativi dell’intera
raccolta: «Ora tutto quello che posso fare è alzarmi dal letto / Ci sono
più cose nello specchio del bagno di quante ce ne siano in cielo». Perché
in questo rovesciamento domestico e un po’ arruffato di una massima di
Shakespeare c’è tutto James McMurtry, con la sua vocazione a perforare
la superficie degli eventi e delle idee partendo da dettagli in apparenza
ordinari, e c’è una rappresentazione fedele e benedetta dall’accettazione
delle nostre debolezze della società fragile, precaria e individualista
nella quale ci siamo assuefatti a vivere. Sopportandola meglio se di tanto
in tanto sbucano compagni di strada marginali, anarchici e romantici come
The Horses And The Hound.