Un senso di profonda spiritualità,
una ricerca di conforto e guarigione attraverso l’amore universale pervadono
le canzoni di Triage, diciottesimo album di studio del texano
Rodney Crowell. Un disco che si impone subito all’attenzione per
il valore introspettivo delle liriche e soltanto in un secondo momento
cresce di intensità attraverso i suoi dettagli musicali. Ha ragione da
vedere il produttore Dan Knobler (apprezzato di recente al fianco di Allison
Russell) nel descriverlo come un lavoro dove non una sola nota è andata
sprecata, tutto registrato in funzione dell’armonia con il messaggio.
L’altra faccia della medaglia è forse l’apparente energia trattenuta della
band (con la partecipazione, fra i tanti ospiti, di Steuart Smith, Jerry
Roe, Eamon McLoughlin e David Henry), una raffinata cura delle emozioni
che appartiene comunque allo stile di questo songwriter.
Sebbene cresciuto alla scuola dei grandi troubadour della sua terra, sotto
l’ala protettrice di Guy Clark, suo maestro, e Townes Van Zandt, e nonostante
sia stato spesso incasellato fra i "nuovi tradizionalisti",
il country d’autore di Crowell, già al servizio di Emmylou Harris e Rosanne
Cash, ha sempre evidenziato un’eclettica inclinazone per la canzone pop
rock, per una scrittura che lo ha spesso avvicinato più a Tom Petty e
George Harrison che non ai tanti colleghi svezzati a pane e outlaw dalle
parti di Houston. Dunque, chiuso idealmente l’omaggio alla sua terra del
precedente Texas,
gioco forza più ruspante negli esiti musicali e dalle ricche collaborazioni,
Triage sviluppa il suo canto d’amore ferito – per un mondo diviso
e confuso da scontri sociali, cambi climatici e pandemia – attraverso
una delle raccolte più personali della sua carriera, che sussulta nell’introduzione
drammatica di Don’t Leave Me Now e
della stessa Triage, suono elettro-acustico
che ricama tra chitarre, piano e voci con il giusto equilibrio tra canzone
d’autore Americana e languori pop.
Che sia un album di luci e ombre lo evidenzia anche l’attendista e malinconica
melodia di Transient Global Amnesia Blues, canzone nata da un’esperienza
personale di Crowell, improvissamente colto da un episodio di amnesia
che ha richiesto un ricovero urgente, per fortuna rivelatosi benigno e
passeggero. La qualità e il mestiere del songwriter è rendere queste ballate,
dall’afflato religioso e umano al tempo stesso, niente affatto pedanti:
la leggerezza country rock di One Little Bird, con il soffio di
armonica, è degna del maestro Willie Nelson, mentre la richiesta impellente
di Something Has to Change unisce
la missiva politica di Crowell con un ballata elettrica di intensità trattenuta.
Non tutto l’ardore delle confessioni di Rodney Crowell si traduce in brani
memorabili (Here Goes Nothing indugia e il caracollare blues di
I’m All About Love appare un po’ fuori posto), ma quando autore,
produzione, band e arrangiamenti si allineano nascono pietre preziose:
i quasi sei minuti di una Girl on the Street
sospesa tra picking acustico e fluttuazioni elettriche, la
semplicità folkie della preghiera contenuta in Hymn#43, la lucentezza
del finale con la stellare ballata di This Body Isn’t All There Is
to Who I Am, sono tutti episodi che confermano l’intensa stagione
della saggezza di Crowell, sempre più padrone del suo ruolo.