Progetto collettivo nella
formula del trio e al tempo stesso estensione del songwriting del solo
Ruarri Joseph, William the Conqueror (impegnativo nome che omaggia
Guglielmo I d'Inghilterra detto "Il Conquistatore") affronta
la difficile prova di un album chiamato a riassumere il percorso musicale
dei due precedenti lavori di questa formazione scozzese. Completando una
sorta di trilogia, inaugurata nel 2017 grazie alla bella rivelazione di
Proud
Disturber Of The Peace e in seguito smussata dalle ambizioni
più mainstream di Bleeding
on the Soundtrack (operazione avvenuta sotto l’egida produttiva
di Ethan Johns), Maverick Thinker getta il cuore oltre l’ostacolo,
accentua il carattere più scorbutico ed elettrico che già emergeva in
parte nel suo predecessore e trova una accattivante espressività per i
racconti dal sapore autobiografico e confessionale del leader.
Joseph, talentuoso autore di Edimburgo con una prima parte di carriera
carica di promesse (l’esordio per il marchio Atlantic) finite nell’indipendenza
assoluta, sembra adesso mostrare una visione più chiara dell’alchimia
sonora creata di comune accordo con Harry Harding (batteria) e Naomi Holmes
(basso). L’aspetto è quello di un rock d’autore dal retrogusto rugginoso
e anni Novanta, costruito su trame essenziali e dall’incedere nervoso
e vulnerabile a seconda dei momenti, collezionando malinconie, ricordi,
immagini di una personale odissea umana proiettata verso l’età adulta.
Maverick Thinker diventa così anche un audiolibro, un podcast e
una serie di performance che hanno accompagnato e anticipato l’uscita
vera e propria del disco. Inciso poche settimane prima della generale
chiusura mondiale presso i celeberrimi Sound City studios di Los Angeles,
con la collaborazione del produttore Joseph Lorge (tecnico del suono che
ha lavorato anche con Bob Dylan), la raccolta segue un umore più “americano”
negli arrangiamenti, mai rinnegando tuttavia la sensibilità di partenza
di Ruarri Joseph: il connubio genera un folk rock incalzante e animoso
nell’apertura di Move On, dai connotati
quasi sudisti nel pigro riff alla JJ Cale che smuove The Deep End,
pronto a lasciarsi cullare da una patina soulful in Alive at Last
e infilandosi in un acquitrino swamp con l’invettiva di Jesus
Died a Young Man e le scure sfumature bluesy di Suddenly
Scared (24 Storeys High).
La band mantiene un profilo istintivo, un suono livido e "dal vivo"
che non nasconde mai gli spigoli (si veda la patina quasi grunge di Wake
Up, il pressante incedere di Fiction e finanche l’esplosione
punk di Reasons), ma al tempo stesso amplia lo spettro degli arrangiamenti
con qualche oasi acustica, note di colore e sospiri nostalgici dettati
da piano e accordion (nelle mani di Evan Vidar). Qui più che altrove è
evidente l’influsso del soggiorno californiano, soprattutto nelle trame
della ballate, che acquistano persino un respiro irish soul (Van Morrison
e Mike Scott approverebbero di sicuro) nella trasparente poesia di Quiet
Life e ancor di più nel piccolo gioiello finale rappresentato dalla
stessa Maverick Thinker, sei minuti
e mezzo sospesi su un ondeggiare elettro-acustico della band e impreziositi
dall'intervento alla chitarra slide del produttore Joseph Lorge.
Le strade da Edimburgo, Scozia, a Los Angeles, California, riservano sorprese
e sembrano comunicare in linea retta, anche quando meno te lo aspetti.