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The many faces of Americana di
Nicola Gervasini (26/10/2017)
Per la storia William The Conqueror era Guglielmo il Bastardo, ufficialmente
poi Re Guglielmo I re D'Inghilterra nel 1066, primo capostipite di una dinastia,
quella dei Normanni, che impera ancora oggi nel Regno Unito. Nome impegnativo
quindi da dare ad una band, ma Ruarri Joseph, hipster di Edinburgo, non
teme confusioni storiche dal momento che, dopo quattro album da solisti, ha deciso
di fondare un trio. Quando esordì nel 2007 (l'album era Tales of Grime and Grit)
a sorreggerlo c'era una major come l'Atlantic, dove evidentemente qualche buon
marketing manager aveva deciso che i folksinger solitari e barbuti qualcosa ancora
riuscivano a vendere tra le ceneri di un mercato discografico sempre più ingovernabile,
ma già dal secondo capitolo Both Sides of The Coin per Joseph iniziò la vita delle
etichette indipendenti e dell'auto-promozione.
Per capire da quale tradizione
venga il suo stile, basta solo dire che nel terzo album (Shoulder to the Wheel
del 2010) compariva una cover di Sixto Rodriguez. Proud Disturber of The
Peace (bel titolo…) potrebbe essere considerato quindi il suo quinto album,
visto che i due partner nell'avventura (Harry Harding e Naomi Holmes), si limitano
dare corpo alle sue bizzarre canzoni. Il risultato sa comunque molto più da band
che i suoi dischi precedenti, con uno stile che abbraccia tutto quanto di americano
si possa rastrellare nella tradizione folk, con quel tocco di follia cantautorale
british alla Robyn Hitchcock che non stona. Dopo la sventagliata di acustiche
di In My Dreams, è il bel singolo Tend To The
Thorns che trova una nuova via di riconciliazione tra l'indie-folk
anni 2000 e certo cantautorato post-grunge alla Jeff Buckley e Elliott Smith.
Did You Wrong è un numero più classicamente roots-rock, con chitarre elettriche
in evidenza (sempre in tema anni 90 torna quasi in mente il purtroppo dimenticato
Pete Droge), mentre nell'ottima Pedestals
salta fuori il John Mellecamp più folk che è in lui.
Il livello compositivo
è alto, anche nei testi, che hanno quel tono introspettivo classico del genere
ma con una buona dose d'ironia ad evitare deragliamenti nell'epicità eccessiva
di certo immaginario americano. Sunny Is The Style
è la ballatona che Ray LaMontagne non riesce a (o non ha più voglia di…) scrivere,
e chiude una ipotetica facciata A (la scaletta del cd divide lato a e lato B come
un vecchio vinile) per riaprire le danze con la magnifica The
Many Faces of A Gold Truth, sorta di funky metropolitano con chitarre
e fiati in evidenza che ricorda certi momenti dediti al soul di Jesse Winchester,
come anche il folk corale della title-track. Cold Ontario fa sfoggio di
un bell'incrocio di cori e piano da barrelhouse, mentre
Mind Keep Changing è addirittura un blues vecchia maniera con un gran
tiro e crescendo finale. Si chiude con l'acustica e "neilyounghiana" Manawatu
un disco davvero sorprendente, non certo per originalità, quanto per freschezza.
Scopritelo.