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Uscita digitale 25 febbraio 2021, in cd/ vinile dal 28 maggio 2021
C’è stato un tempo in cui
qualcuno ha pensato che Re Inchiostro stesse pian piano lasciando
il campo ad un signore di mezz’età che aveva deciso di passare il resto
dei suoi giorni a ricordare di essere sopravvissuto a sé stesso, piuttosto
che affrontare davvero nuove audaci contese con gli spiriti del regno
degli inferi. Lo stacco tra Nick the Stripper e il Cave “normalizzato”
di Brighton, in abito scuro e ventiquattrore, che andava a letto presto
e la mattina aveva un cartellino da timbrare e delle pagine da riempire,
era troppo grande per dirimere le ansie di generazioni di adepti, troppo
legati alla figura del cantore maledetto, per accettare una versione docile
e “diversamente” poetica di un artista ripulito dalle perverse istanze
autodistruttive del suo personaggio giovanile.
Alla morte del figlioletto, avvenuta improvvisamente nell’estate del 2015,
tutte queste elucubrazioni intellettualoidi, hanno però dovuto cedere
il passo al timore, questo sì concreto, di veder ripiombare Nick Cave
nell’oscurità della sua ancestrale dannazione. Avrà attinto a tutte le
proprie risorse per credere possibile un nuovo tempo, per metabolizzare
gli eventi ma alla fine ce l’ha fatta a riemergere, a dare forma e parole
al suo infinito dolore, ad intrecciare nelle sue narrazioni, con lucida
mestizia e bellezza inusitata, ancora una volta l’amore e la morte. Carnage
è il secondo inaspettato capitolo della resurrezione e se Ghosteen
era l’album della rivelazione, della preghiera e della catarsi, quest’ultimo
disco rappresenta in qualche modo il primo passo verso la liberazione,
il ritorno al mondo dei vivi, crudo, esplicito, soffocante ma anche mistico,
tremante, sognante, in cui si alternano l’angoscia per le scelte sbagliate,
alla speranza di quiete e di perdono, alla sete di giustizia, alla voglia
di eterno.
Rimette i panni del predicatore Nick, ma sembra aver acquisito una consapevolezza
diversa, un’idea dell’ultraterreno quasi plastica, a margine di un mondo
che si divide sempre tra bene e male, tra violenza e dolcezza, tra Vecchio
e Nuovo Testamento. Le parole non piovono più come pietre ma scorrono
come immagini, flussi di pensieri, urla o carezze, colpiscono sempre forte
ma senza uccidere. È evidente che la linea è tracciata e che al Nick Cave
ipnotico, teatrale ed autoreferenziale, si stia affiancando un altro Nick
Cave a forti tinte autobiografiche, malinconico e sofferente come sempre
ma struggente e a nudo come mai prima. Carnage si apre con Hand
of God e capiamo subito perché la seconda firma del disco sia
quella di Warren Ellis. È questi la mente con la visione più scenografica,
orchestrale persino tribale, in grado anche di attingere la giusta tensione
da suoni industriali e tecnologici, senza sfaldare il tessuto tradizionale
su cui si impiantano i brani. A ruota arriva Old Time, altra meraviglia
sonica che continua a galleggiare tra voodoo e sacralità immanente. Una
linea di basso circolare che apre varchi temporali ed archi lancinanti
che increspano la superficie.
La morriconiana title track, Albuquerque e Shattered Ground
sono invece ennesime rivisitazioni del proprio lutto, in perfetta continuità
con i vaporosi ed elegiaci filamenti di Ghoststeen, mentre White
Elephant è un gospel duro ed irrituale che sembra alludere
all’imminente fine del mondo. In Lavander Fields Nick cede invece
al misticismo ecclesiastico, ripete ossessivamente “there is a kingdom”
e traccia la sua via per i campi celesti, salvo poi dover fare i conti
con la sua fragile e persistente condizione terrena, di uomo che vive
su un balcone (Balcony Man), “dove tutto è ordinario finchè non
lo è”, dove tutto è visibile finchè non sparisce, dove “tutto quello che
non ti uccide ti rende pazzo”.
“Disco brutale ma molto bello, annidato in una catastrofe globale”, così
lo definisce la nota stampa e lo è in quanto ferocemente sincero, di un
lirismo unico, esemplare, ben al di fuori da un concetto ordinario di
songwriting, oltre i canoni classici dai quali pure attinge, assurto ora
a paradigma di una sorta di realismo estatico che soverchia testi e musica.
Nick Cave, come Robert Johnson o Johnny Cash, si racconta e ci racconta,
si eleva e ci eleva dalla mediocrità dei suoi tempi e soprattutto scrive
canzoni che fanno sanguinare l’anima.