Come chi nel mezzo del nulla si è ritagliato un’esistenza
ricca dei valori più rappresentativi della sua terra, a due anni dallo
scorso disco di cover, come apprezzabile memoir musicale personale, è
un piacere ritrovare ancora al lavoro su dei pezzi autografi uno come
William Elliott Whitmore. Ci aveva rinfrancato sapere con quel
Kilonova,
2018, che Will non avrebbe mai barattato la conduzione di una fattoria
con la musica, ma ci conferma ancor di più col suo nuovo album per la
Bloodshot Records, che le due anime coesistono e coesisteranno sempre,
attorno a quel centro di mondo che è la sua Lee County, Iowa, come fosse
la Holt letteraria di Kent Haruf. E in tempi da nuova Depressione americana
(..a dire il vero non più solo americana) il suo codice espressivo immanente
al linguaggio di una tradizione famigliare (tanto i nonni quanto i suoi
suonavano) è appieno quello popolare, che attraverso la musica ci racconta
le storie di ogni giorno, come i leggendari hoboes musicanti che portavano
la loro cronaca nei luoghi di lavoro e della vita.
Con I’m With You ritroviamo allora un vecchio amico dall’America
profonda, capace ancora di prendere in mano le testimonianze di un passato
senza la pretesa di farne la voce per un futuro, se non nel conservarsi
integri in mezzo alle macerie di un oscuro presente. Persino la copertina
è più evocativa che mai nel rimando assieme bucolico e inquietante, un
po’ alla vita nei boschi di Thoreau e un po’ al richiamo della foresta
di Jack London, nel disegno sì naif di un branco di lupi nella pineta,
monito di quel che mai avremmo dovuto perdere della vicinanza alla natura
nello spirito americano e universale. Ed è quell’animo ancestrale che
pare così incalzare già all’attacco della traccia d’apertura, Put
It To Use come eco da un passato che ci insegna, con la voce
degli antenati e una saggezza che non va perduta. Stavolta non è solo,
Whitmore, e pare di scorrere i fotogrammi sfilacciati in bianco e nero
di un’umanità minore al lavoro intorno alla ferrovia dell’ultima frontiera,
mentre il banjo rimbalza la diteggiatura delle sue corde su un tappeto
di violino e lo stomp di una grancassa a pedale è il ritmo cadenzato di
un viaggio appena cominciato.
A fare il paio con questo messaggio, sarà poco più avanti anche la stupenda
acustica piena e brillante di History,
pedal-steel in sottofondo a una narrazione roca e assieme solare, di uno
spiraglio di luce in fondo al tunnel. Il fantasma dell’ultimo hobo americano
è ancora lì e quando Solar Flare ci introduce alle stanze del suo
nuovo lavoro, scopriamo che W.E.W. non ha perso quello storytelling per
voce e chitarra che fu dei primi dischi e di tutto un mondo i cui rimandi
sono a un’intramontabile racconto per canzoni dall’immarcescibile potenza
comunicativa. Ce lo conferma anche quando il cantato è un talkin’-blues
come MK Ultra Blues, accusa a quella nazione che prenda decisioni
per paura, con tutte le conseguenze del caso. E se anche le scelte espressive
stavolta sono meno integraliste rispetto ai primi lavori, cosa che abbraccia
un pubblico più vasto allargandone il messaggio, la parentesi country
di My Mind Can’t Be Cruel e l’accesa Black
Iowa Dirt non tradiscono quell’affermazione di senso che è
anche dietro l’altra grande ballad dell’eterno ragazzo del Midwest: I’m
Here - “sono qui” –. Certo Will, e anche noi siamo dalla tua
parte.