L’irriverenza della gioventù
dalla loro parte, unita all’ironia dissacrante del migliore rock’n’roll
che non si prende troppo sul serio, eppure crede con ostinazione nell’obiettivo,
The Nude Party si confermano una ventata di aria fresca tra le
nuove leve che pescano nel passato rock. Retromaniaci ma con gusto e intelligenza
tali da non schiacciarli in un angolo fatto di mera nostalgia, i sei ragazzi
terribili del North Carolina, band nata dalle frequentazioni al college,
torna a due anni di distanza del debutto
omonimo in casa New West con un secondo tempo che nel medesimo
istante serra le fila e allarga le ambizioni del gruppo.
La produzione è ancora nelle mani di Oakley Munson dei Black Lips, spirito
affine che può comprendere appieno l’anima dei Nude Party, una comune
di musicisti riunita negli studi casalinghi fra le Catskill Mountains
alle prese con un garage rock esuberante, che “pasticcia” con la tradizione
southern e country, il pop dei sixties e le scie glam del decennio successivo,
mettendo insieme il beat inglese degli Stones e dei Kinks con la scorza
punk di Lou Reed e Iggy Pop. Midnight Manor è disco rodato
sulla strada e si sente dal piglio più sfacciato della band, occupata
a farsi trascinare dal piano saltellante che introduce la scarica garagista
di Lonely Heather per approdare alla
scanzonata e alcolica Pardon Me, Satan.
Due anni in tour, il palco condiviso con Ron Gallo, Jack White e Artic
Monkeys, gente che ha subito sposato la filosofia dei Nude Party dichiarandosi
loro fan, Patton Magee (principale voce) e soci (su tutti spiccano le
chitarre speziate di Shaun Couture e soprattutto il piano barrelhouse
di Don Merril) girano come trottole fra le loro storie di scapestrati
alle prese con lo spietato sogno (o forse meglio dire illusione?) del
rock’n’roll, che prevede frustrazioni, cadute e una testa dura come il
muro per andare avanti.
Di questo ed altro (anche un rapporto abbastanza disinibito con gli eccessi)
parla Midnight Manor, un album spassoso come deve essere questo
tipo di approccio alla materia rock: il cortocircuito fra Stones e glam
di Easier Said that Done, l’irresistibile cadenza brit pop e i
riverberi di Shine Your Light, prima
che compaia anche una pedal steel (il membro aggiunto Jon Catfish Delorme)
in What’s the Deal? e trascini il
gruppo dalle parti dei Velvet di Loaded. Cities è un’altra riuscitissima
pantomima tra garage e glam rock che potrebbe riempire una pista, quando
si potrà tornare a ballare sul serio, mentre Thirsty Drinking Blues
e Judith mettono una spunta sulle tendenze “passatiste” della formazione
e aggiornano l’amore incondizionato per i sixties più fracassoni, in attesa
che la nostalgica ballata (qui sì, i Nude Party cedono ai ricordi)
Things Fall Apart lanci il suo dolce lamento guancia a giancia.
Il commiato invece non poteva che essere canzonatorio, con la bislacca
rappresentazione a tempo di marcetta country di Nashville Record Co.,
quel piano onnipresente e persino un solo di kazoo, per parlare dei “dolori”
di un musicista alle prese con le regole dell’ (in)successo e i trucchetti
dell’industria discografica: è nata da un discussione in cucina tra Patton
Magee e sua madre e tanto basta a renderci ancora più simpatici The Nude
Party. Quando torneremo a far festa, saranno il primo gruppo da contattare.