* a tre mesi dalla sola uscita in digitale, in
questi giorni è finalmente disponibile in vinile e cd il nuovo
lavoro della cantautrice inglese. Ne riproponiamo la recensione per ricordare
uno dei dischi migliori della stagione.
È stata una splendida, inaspettata sorpresa di primavera questo nuovo
album di Laura Marling, che in anticipo sui tempi previsti (ora
disponibile nel’edizione fisica) e con un desiderio di condivisione maturato
dalla stessa musicista inglese, fa sì che l’unico vero potere resti
in mano alla musica. La decisione è naturalmente legata al periodo che
stiamo vivendo, all’idea di mettere in gioco una parte di se stessi e
della propria arte, gettandola nella complicata bellezza di un mondo in
subbuglio. Non poteva esserci strategia migliore per Song For Our
Daughter, un disco che fin dal titolo mette al centro il ruolo
di madre della Marling, l’angoscia ma anche la speranza di fare da guida
alla figlia attraverso il caos che ci circonda, per diferderla e preservarne
l’innocenza.
Alla soglia dei trent’anni, dopo la fierezza della condizione femminile
indagata nel precedente Semper
Femina, forse il suo lavoro più ambizioso in termini
sonori, Laura Marling pare volgersi all’altra faccia della sua crescita
individuale, come donna, genitore e artista, quella della responsabilità.
Compie questo passo abbandonando gli Stati Uniti, dove si era trasferita
alla ricerca di inediti stimoli, e tornando a Londra, accanto alla famiglia
di origine, agli affetti, persino agli interessi nello studio della psicanalisi,
ma soprattutto costruendosi uno studio casalingo dove mettere in pratica
un folk adulto e misurato e chiamando infine il vecchio amico Ethan
Johns a resuscitare suoni più inclini alla tradizione. L’effetto è
stupefacente nel trittico iniziale di Alexandra,
Held Down e Strange Girl, avvio radioso di sospiri e movimenti
folk rock, brezze pop elettro-acustiche che richiamano una volta di più
i sentieri californiani del Laurel Canyon e della musa Joni Mitchell,
qui ad intrecciarsi con le brume inglesi, e che tuttavia lasciano soltanto
presagire il seguito.
C’è lucentezza negli arrangiamenti e un approccio spigliato, come se
Song For Our Daughter rappresentasse l’altra metà del capolavoro personale
dell’artista, l'umorale e "scorbutico" Once
I Was an Eagle, album oggi ribaltato da una prospettiva più
meditata. Anche la voce ha imparato a dosare dettagli e languori nelle
tonalità, e quando arriva il momento di farsi intima, di carezzare le
note della chitarra acustica e affondare nella bambagia di voci e archi
(curati da Rob Moose, già al fianco di Antony and the Johnsons e Bon Iver),
la magnificenza è presto servita: Only the Strong
è un sussurro, mentre il piano tiene per mano il sofisticato gioiello
melodico di Blow by Blow, e la stessa Song
for Our Daughter respira in un equilibrio perfetto che danza
leggiadro tra ritmica, voci e archi. Questi ultimi sono una irresistibile
presenza “ingombrante”, che aumenta di brano in brano senza mai eccedere
l’assoluta armonia che la Marling infonde alle interpretazioni (è il caso
di Fortune). Miracolo di quei dischi che sembrano aprire spazi
e immaginazione con piccole, impercettibili pennellate di suono, per esempio
una steel guitar che aleggia nel canto fiducioso di Hope
We Meet Again, oppure un soave coro che incrocia al largo il
gospel e che culla la melodia evanescente di For You, prima che
una chitarra elettrica e dei fiati ricamino l’ordito musicale.
Gli esordi da giovanisima, sette dischi in dodici anni senza mai una caduta
di stile, semmai una costante, progressiva padronanza dei propri mezzi:
Laura Marling accresce il ruolo di assoluta prima stella del folk moderno,
una guida in questo nostro tempo incerto.