Dalla Georgia a Nashville
con una valigia di canzoni e una chitarra chiusa a forza nella custodia,
la storia di Jeremy Ivey è un copione già scritto e letto all’infinito,
eppure il solo che possa ancora nutrire l’american music che guarda alla
strada e alla tradizione (rinnovata). La fortuna, oltre a un songwriting
che è tutto merito suo, è stata quella di incontrare lungo il percorso
la stella di Margo Price, poi compagna anche nella vita, formando un team
artistico che si è reciprocamente scambiato intuizioni e idee, sebbene
ciascuno con una personalità ben distinta: lui chitarrista e spalla ideale
nei dischi di Margo, lei produttrice dei primi tentativi solisti di Jeremy.
A poco più di un anno di distanza dal vero e proprio esordio, quel The
Dream and the Dreamer che lo imponeva come una nuova interessante
voce dell’Americana dalle tinte noir, Waiting Out the Storm
aggiunge dieci capitoli al viaggio, raddoppiando se possibile la posta
in gioco.
Frutto di un lavoro più espressivo insieme alla band, battezzati con una
punta di ironia The Extraterrestrials, l’album sposta il baricentro dall’autore
alle chitarre, alza un poco il volume e prova a far collidere le fondamenta
folk rock e gli accenti country cosmici di Ivey con un tono più ”scontroso”
e robusto. Il cambio di passo è evidente e introduce un’energia spavalda
nelle canzoni di Jeremy, il quale mantiene quella voce indolente e quella
generale propensione per le implicazioni pop psichedeliche che già emerge
con chiarezza dall’incipit di Tomorrow People
(un messaggio di scuse e di rinnovata speranza per chi popolerà il mondo
nel futuro). È il carattere “politico” dei nuovi brani a vivacizzarli:
scritto e pensato più di un anno fa, completato durante il tour con Margo
e poi messo in un cassetto dalla forza degli eventi (il tornado che ha
investito Nashville e poi l’arrivo implacabile della pandemia), Waiting
Out the Storm ha assunto, volente o nolente, un significato attuale,
nonostante le sue domande e la sua visione siano universali.
Ivey si interroga sulla nosta capacità, come società di esseri umani,
di farci compassionevoli l’uno nei confronti dell’altro, a partire dal
singolo scelto, la serpeggiante e scura Someone’s
Else Problem. Tutto il resto ne consegue, con canzoni brillanti
e pungenti a livello elettrico, che osservano il mondo in disgrazia e
cercano connessioni fra le persone per restare in piedi. Jeremy Ivey sceglie
di gonfiare il sound e lo spirito rock’n’roll, mettendo insieme il Bob
Dylan della Rolling Thunder Revue con le scie del Paisley Underground:
chitarre e organo che rotolano in Paradise Alley, una nostalgica
Movies che fluttua tra cori e riverberi sixties, mentre l’agitato
caracollare di Hands Down in Your Pockets
e la polvere desert rock che si solleva da White Shadow e dal tremore
punk stradaiolo di Loser Town sembrano sbucare dalla stessa sensibilità
dello Steve Wynn solista (o dei Dream Syndicate maturi di Medicine
Show, fate voi), così come del dispettoso fuorilegge Dan Stuart al
fianco dei Green on Red.
Chitarra slide e un po’ di vaporoso e divertente scherno attraversa invece
Things Could get Much Worse, spiritoso video
ad accompagnarne il senso (Ivey è stato concretamente affetto da Covid
e in serie condizioni di salute per diversi mesi), nel brano più leggero
della raccolta, altrove rivolta semmai al piacere sempre rinnovato di
una ballata roots elettrica (What’s The Matter Esther, la fiammante
How It Has to Be) che insegue una luce fuori dall’oscurità,
come Jeremy stesso sembra indicarci.