Let It All In: e gli
Arbouretum lasciano davvero entrare la lucentezza di più suggestioni,
anche inedite, nella loro formula musicale in apparenza così riconoscibile,
oggi più che mai disposta ad attraversare la fase della maturità, sapienza
compositiva che li impone come classici di quest’epoca rock. È un intrico
di note familiari e al tempo stesso rinnovate quello che si è impadronito
di questi otto brani, incisi dalla band di Baltimora sotto la direzione
del produttore Steve Wright, lì dove il trio di base, sempre guidato dalla
metafisica scrittura di Dave Heumann, ha ribadito l’unione con le tastiere
di Matthew Pierce, ancora discrete eppure decisive per legare insieme
il loro sound, nonché con la seconda batteria di David Bergander, soluzione
che conferma lo spirito musicale del gruppo.
Le radici, infatti, affondano ancora nella terra scura del folk rock dalle
tinte psichedeliche dei Settanta, nelle code del Progressive più bucolico,
ma anche, e qui emerge una piccola novità, nel linguaggio dell’Americana,
fra accenti country blues e umori sudisti che irrompono nel finale di
High Water Song, con tanto di fiati,
ad opera di Dave Ballou, e di un saltellante piano da barrelhouse di New
Orleans, nelle mani di Hans Chew. È l’inevitabile evoluzione di una musica
più controllata e “adulta”, che già emergeva nel precedente Song
of the Rose: ma se allora l’impressione era che gli Arbouretum
stessero tirando le somme di un percorso, qualche volta concedendosi più
mestiere, Let It All In è adesso un rilancio consapevole,
la certificazione della qualità raggiunte dal loro songwriting. Non traspare,
se non con l’eccezione della title track, il magma sonoro degli esordi,
ed è lontana la grezza e scura superficie space rock di un tempo, ma l’impatto
terso della melodia di How Deep Is Goes
e il suo circolare folk rock sono la migliore dimostrazione di questa
nuova mutazione degli Arbouretum.
Le ombre dei testi sono quelle di un mondo che attraversa acque impetuose
(High Water Song, per l'appunto), di relazioni umane e sociali
in tumulto, di riflessioni che non possono evitare anche il tema ambientale
(Heumann da sempre trova negli elementi della natura ispirazioni per metafore
e filosofia a tempo di rock psichedelico), tradotte oggi in una colonna
sonora più placida, seppure immaginifica come è sempre stata la musica
della band. Quest’ultima si strugge e si abbraccia nell’armonioso folk
elettrico di A Prism in Reverse, di
chiara scuola Fairport Convention, o in una Buffeted by Wind che
incorpora chitarre jingle jangle ed echi californiani, aprendosi quindi
alla purezza rock epica di No Sanctuary Blues,
canzone che sembra rallentare in una rarefatta nebbia psichedelica per
riprendere improvvisamente vigore, e rimanendo infine sospesa nel tempo
spezzato di Headwaters II, tra i pochi episodi a sciogliere nel
finale le briglie della chitarra solista.
L’elefante nella cristalleria, meglio, la creatura preistorica che avanza
con passo minaccioso, facendo da preziosa anomalia, è proprio la citata
Let It All In, diamante grezzo di
quasi dodici minuti che si avviluppa su scrosci sonori di psych-rock,
e che bene andrebbe a braccetto con l’ultima esaltante coda della carriera
dei Dream Syndicate. Una buona compagnia, non credete?