C’è molta carne al fuoco, almeno a livello concettuale,
nel nuovo album — l’undicesimo, live compresi, dal 2006 a oggi — degli
American Aquarium da Raleigh, Carolina del Nord, e se questa è
senz’altro una buona notizia per un gruppo in procinto di sciogliersi
dieci anni fa, non è detto lo sia altrettanto per chi, da certa musica,
pretende un contatto epidermico e un apprezzamento non vincolato alla
decifrazione di temi, testi e messaggi. Sempre più creatura nelle mani
del cantante, chitarrista e autore BJ Barham, qui di nuovo accompagnato
dalla sei corde di Shane Boeker (in formazione dal 2017 appena) e per
il resto alle prese con altri quattro musicisti reclutati giusto l’anno
scorso, gli AA hanno infatti confezionato, con Lamentations,
sia il loro disco più ambizioso, costellato da riferimenti al Vecchio
Testamento, questioni metafisiche e osservazioni di stampo sociologico,
sia quello in cui la formula delle loro canzoni — un roots-rock operaio
e romantico dalle sfumature a tratti countreggianti — si cristallizza
in un linguaggio che vuole programmaticamente mostrarsi trasparente, concreto
e privo di artifici, correndo quindi in diverse occasioni il rischio di
scivolare nelle secche del “già sentito”.
Significativo, in questo senso, è l’incedere di The
Day I Learned To Lie To You, secondo Barham l’episodio più
importante dell’intero lavoro, in parte modellata sulle ballate countrypolitan
anni ’60 e ’70 di Loretta Lynn, in parte ammantata dal respiro soul soffiato
anche sulle atmosfere “sudiste” di quel Burn.
Flicker. Die. nel 2012 prodotto da Jason Isbell: intrigante
nelle premesse, per carità, ma nei fatti nulla di nuovo, o di più intenso,
rispetto alla materia country-soul con la quale, anche in tempi recenti,
si sono cimentati in moltissimi. Eppure, al di là della sorpresa per l’iniziale
Me + Mine (Lamentations), in cui Barham e soci architettano un
crescendo rockista in grado di ricordarci perché la loro ragione sociale
derivi da un brano dei Wilco, è nell’honky-tonk elettrico di A
Better South, nei rintocchi semiacustici di How Wicked I
Was o nello sferzante r’n’r alla Lucero di Before The Dogwood Blooms
(fino all’apoteosi classic-rock di una The Long
Haul così svergognatamente anni ’70 da sembrare un pezzo di
Jackson Browne o Warren Zevon, e da avvincere con la stessa efficacia
appartenuta a costoro) che va ricercata la più istintiva, elementare chiarezza
di chi non teme di puntare al cuore e si dimostra capace, ogni volta,
di farlo scopertamente.
Perciò sì, diciamolo pure: Lamentations non contiene le canzoni
migliori dell’epopea degli AA. Ciò nonostante sa trasmettere la sensazione
i suoi dieci capitoli siano stati composti sotto l’azzurro dei cieli a
perdita d’occhio, in mezzo alla polvere delle praterie sconfinate, sopra
l’asfalto di quelle autostrade le cui carreggiate si snodano per migliaia
di chilometri, e questa sensazione di vastità, in tempi di reclusione
forzata (ancora vigente mentre scrivo queste righe), ha l’effetto di un
balsamo nei confronti del quale provare gratitudine: ricordandosi di come,
nelle stupore delle nostre giovinezze, l’amore per la sincerità e l’asciuttezza
di questo rock americano sia nato anche nell’illusione di correre attraverso
i segreti di una terra diversa e promessa.