File Under:roots
rock, alt-country di
Fabio Cerbone (23/10/2012)
Come
non dare anche solo un minimo di credito a Bj Barham quando canta: "un tempo ero
un uomo presentabile, poi la vita ha chiesto il conto/ ora sono solo una vittima
del rock'n'roll". Lo sguardo su una dura vita on the road, spesso fatta
di droghe e amori perduti, le sconfitte che si porta dietro, la consapevolezza
di non riuscire mai ad emergere, l'american dream che si impantana i qualche small
town di periferia. Buona parte del songwriting degli American Aquarium
dispiega il suo fascino nei versi di Barham, uno che ha studiato sui banchi migliori,
prendendo a prestito luoghi comuni e affermazioni essenziali appartenuti al rock'n'roll
fin dai suoi albori. Potrebbe essere la sagra del già sentito o persino un'imitazione
insopportabile, è invece un disco che promette quanto scritto a lettere perentorie
nel titolo: Burn. Flicker. Die.
Non c'è posa e non c'è finzione,
anche perché gli American Aquarium da Raleigh, North Carolina, sono al sesto disco
in meno di sette anni di attività, costantemente alla ricerca della loro voce
personale. L'hanno trovata dopo dieci giorni di registrazioni in Alabama, negli
studi di Sheffield, Muscle Shoals e dintorni, ovvero dove la storia della soul
music e del southern rock ha preso forma. Per sbocciare definitivamente in tutta
la loro ruvida scorza sudista, tra fiammate elettriche e reminiscenze alt-country
(d'altronde la band arriva dalla terra dei Whiskeytown e Caitlin Cary è una loro
sostenitrice di lunga data), hanno stretto un patto con Jason Isbell, qui
alla sua prima produzione. Pienamente riuscita, viene subito da aggiungere, un'impronta
indelebile già alle prime battute di Cape Fear River,
che prosegue nel febbrile roots rock St. Mary's e
fra le drammatiche trame country di Lonely Ain't easy.
Alla schietta tempra rurale della band si aggiungono il violino di Amanda Shires
e il piano di Spooner Oldham, ospiti che Isbell traghetta nel sound degli
American Aquarium facendo compiere un salto notevole di carattere rispetto al
già positivo (e programmatico) Small
Town Hymns.
Là dove il romanticismo depresso di Barham faceva
pensare ad uno storyteller di razza con una rock'n'roll band al traino, oggi si
trasfigura in un progetto frutto di un collettivo, dove il ruolo del quintetto
ha una predominanza sui singoli. Non mancano momenti di introspezione e ballate
umorali (Jacksonville, l'intensa Harmless Sparks),
ma le chitarre di Ryan Johnson e la steel di Whit Wright non sono più un semplice
contorno alle declamazioni di Barham, voce rude e immaginario da beautiful loser.
La title track brucia tutto in fretta, Casualties
(da cui il verso in apertura) vibra rock dai margini dell'America, Savannah
Almost Killed Me rotola sulle macerie dell'alternative country più
elettrico, genere di formazione degli American Aquarium, che omaggiano persino
i misconosciuti concittadini Backsliders con una cover di Abe
Lincoln (stava sul secondo lavoro, prodotto da Eric Ambel).
Saturday Nights chiude ballando sulle ceneri del boogie sudista, una
lei entra nel bar mentre lui ha già capito tutto: "non sta cercando l'amore/ è
semplicemente spaventata a morte di essere sola". Benvenuti in America.