E se il modo migliore per esprimere la propria anima/arte
e ritagliarsi il proprio posto nel firmamento musicale fosse spogliarsi
di orpelli e sofisticazioni eccessive recuperando un sound minimale? Deve
essere stata questa la vocina che girava in testa a Courtney Marie
Andrews nella composizione del suo nuovo imminente album, Old
Flowers. Giovane, non ancora trentenne, talentuosa, dotata di
una voce magnifica, di Phoenix (Arizona). I numeri ci sono tutti per diventare
un pezzo grosso del country-folk americano (nelle moderne varianti rese
dagli appellativi “indie” e “alternative”). E’ una donna, poi, di bell'aspetto
e di una grazia umana ed artistica che ricorda Joni Mitchell. Ha grinta,
inoltre, come Brandi Carlile. E’ attenta alle radici come Lucinda Williams.
Ha la sensualità di Carly Simon. E ce ne sono miriadi, negli States, di
cantautrici in erba che, forti delle suggestioni della loro terra e con
tanto esempio di eccellenze cui attingere, hanno imbracciato una chitarra,
guardato dentro il loro cuore di donne e raccontato se stesse. Lei ce
l’ha fatta ad emergere, finalmente.
Old Flowers è l’album della sua consacrazione, che la fa uscire
dall’underground (che poi in America troppo sommerso non è mai) e la impone
con forza all’attenzione della scena musicale mondiale. Un album che arriva
dopo Honest
Life (2016) con il quale esce dai confini nazionali, e dopo
May
Your Kindness Remain (2018) che sfrutta un budget più alto
e una produzione più “importante”. Se il primo era molto verace e genuino,
il secondo risultava più sofisticato e musicalmente vario. Con Old
Flowers Courtney Marie recupera l’essenzialità di Honest Life
e la maggiore maturità, e i mezzi, di May Your Kindness Remain,
per scrivere quella che è la sua formula, il suo format, la sua via. Sono
fiori secchi, fragilità, un amore finito, le ferite, la malinconia, ma
anche l’accettazione, la maturazione, una rinnovata forza, il riscoprirsi,
il bastare a se stessa, il preferire una dignitosa solitudine a una relazione
trascinata forzosamente. La giovane cantautrice ci offre un full lenght
altamente autobiografico, dolorosamente intimo e riflessivo, da ricordare
Blue di Joni. Ma anche pervaso da quel vigore di rinascita e propositività
tutte femminili che richiamano Tapestry di Carole King.
La soluzione musicale adottata per esprimere tale tripudio emozionale
è quella di un suono il più possibile scarno, così da offrirci canzoni
nude e crude, di una bellezza struggente, ravvisabile soprattutto nelle
due immense ballad dell’album (If I Told
e Together Or Alone). Piano, chitarra,
arpeggi magnifici che poi salgono con un misurato uso dell’elettronica
che arricchisce la melodia liberandola dalle strette di un totally acustic.
Credo fermamente che il ricorso ad un’elettronica di impatto sia la chiave
per far suonare attuale, fresco ed incisivo, anche il più classic del
folk. E questo disco sembra davvero aver metabolizzato benissimo questa
tendenza facendola sua nella maniera più naturale. Non c’è odore di artefatto
nemmeno nei brani più vivaci che magari cedono il passo ad una maggiore
spensieratezza (la title track, per esempio, e It Must Be Someone Else’s
Fault). E’ tutto un incastro perfetto fra intenzioni comunicative,
parole, suono.
Tutto fluisce come se fosse sempre esistito. Tra attimi di cupo e dolce
mestizia (Carnival Dream) e lucide riflessioni (Guilty),
come fossero i due estremi di uno spettro che va dal dolore alla rinascita
su cui si collocano i dieci brani di questo album così bello da essere
dirompente, così in stato di grazia da non poter più essere nascosto al
mondo.