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Under: soul rock
di Fabio Cerbone (19/02/2019)
La direzione era in qualche
modo già segnata con il precedente Let
Me Get By, album della consacrazione per il numeroso collettivo
della Tedeschi Trucks Band: una musica che serrava le fila degli
arrangiamenti e si concentrava sulla visione d’insieme, sulla qualità
delle canzoni prima ancora che su quella naturale propensione alla jam,
da cui attinge l’educazione di questi musicisti. Signs,
a tre anni di distanza, è la conferma che da quelle intuizioni non si
torna indietro, accentuando semmai il ruolo di protagonsita della voce
di Susan Tedeschi e del suo potere interpretativo, ormai incontrastata
signora del soul.
Tra alti e bassi nella solidità compositiva, ma disciplinata nella tessitura
sonora, capace comunque di mantenere la colorita agilità della band anche
fra le mura di uno studio, la dozzina e passa di elementi che arrichiscono
la Tedeschi Trucks Band porta a termine un album indubbiamente luminoso,
ricco di gioia r&b, di trame e ritmiche funkeggianti, dove lo spirito
di certa black music e di buona parte del white soul a cavallo tra anni
Sessanta e Settanta sale una volta di più alla ribalta, descrivendoli
come una sorta di versione contemporanea di Delaney and Bonnie. Il contrasto
è evidente con le ombre che si sono addensate sulla storia del gruppo
e sugli amici che ne hanno circondato la famiglia: le dipartite di Butch
Trucks e Greg Allman, quella del mentore Bruce Hampton, alle quali si
è aggiunta proprio in queste settimane l’imprevista scomparsa, ancora
più tragica per la stessa Tedeschi Trucks Band, del tastierista e membro
essenziale Kofi Burbridge.
Esorcizzare il dolore ed evocare la speranza appare il tratto fondamentale
del canto di Susan Tedeschi, mai così intenso, mentre la chitarra
del compagno Derek batte i suoi colpi, affonda di tanto in tanto il coltello,
ma si trattiene da voli pindarici. Ammassata attorno al groove (e quando
lo azzeccano la temperatura di si alza), al calore gospel delle voci (sempre
presente anche Mike Mattison), la Tedeschi Trucks band trascina nella
passione dell’iniziale Signs, High Times,
nel riff caracollante di Shame e in quello platealmente rock’n’roll
di They Don’t Shine, circondata dagli
spiriti di Ike & Tine Turner. Hard Case è il primo singolo estratto
e strizza l’occhio a un soul rock dai toni più leggeri, che bene si affianca
ad alcune soluzioni strumentali più levigate, potremmo quasi definirle
pop nelle intenzioni, che sporadicamente si affacciano sulla scena. Ciò
non cancella affatto l’anima del gruppo, sia detto, che fra tinte psichedeliche
e percussive in I’m Gon a Be There e appassionati inni gospel elettrici
(la slide di Derek Trucks che attraversa When
Will I Begin), mentiene fede alla sua avventura.
Diverse canzoni soffrono probabilmente di una scrittura incompleta, il
gruppo sfiora una punta di mestiere in alcuni passaggi romantici (le ballate
più melliflue e quelle che mostrano una scrittura sofisticata, come Strenghten
What Remains e All the World), dirigendo i riflettori su Susan
Tedeschi e rimandando all’appuntamento dal vivo ogni tentativo di esplodere
in tutte le potenzialità.