Avrete anche voi una trattoria
del cuore, se ancora ne sono rimaste, quei luoghi poco appariscenti dove
rifugiarvi e tornare ciclicamente per assaporare il piatto preferito,
i cui ingredienti conoscete a memoria eppure non vi stancano mai. Oppure
una birreria dove degustare sempre quel particolare tipo di bionda alla
spina, perché lì, chissà come, sembra scendere nello stomaco più buona
e fresca. La musica di Chris Knight, classe 1960, songwriter del
Kentucky, fa un po’ questo effetto: uguale a se stessa, fedele nei secoli,
incorruttibile nel tratteggiare il paesaggio di un’America rurale fatta
di storie operaie e miglia da percorrere. Distinguere un suo album dal
successivo è questione di dettagli, a volte invisibili, di singoli versi
e di caratteri, quelli narrati nelle canzoni come se si trattasse di un
autore di short stories. Eppure la musica non si muove di un centimetro,
country rock grezzo ed elettrico, con quel piglio sudista delle chitarre
e quella polvere che lo fa sembrare un texano dalla pellaccia dura.
Credere che Almost Daylight possa stravolgere la sceneggiatura
è una pia illusione, tanto più che alla produzione si conferma, come nei
lavori passati, l’ottimo Ray Kennedy (Steve Earle, Lucinda Williams e
molti altri nel suo palmares) e alle chitarre torna l’amico Dan Baird
(Georgia Satellites), altro rinnegato che persegue la sua idea di rock’n’roll
senza compromessi. Certo, sono trascorsi sette lunghi anni da Little
Victories, e dunque ritrovare questa voce autentica dell’heartland
americano ha un gusto meno prevedibile, perché ci stavamo quasi abituando
alla sua assenza. Invece, questo figlio del Kentucky, terra che nel frattempo
è diventata l’anima della nuova e più eccitante country music in circolazione
(con i "nipotini" Chris Stapleton, Tyler Childers, Sturgill
Simpson…), torna a quasi sessant'anni sulla scena ribadendo di essere
una specie di padre putativo per tutti quelli venuti dopo, soprattutto
uno che le canzoni le sa scrivere, a cominciare da I’m
William Callahan, Chris Knight all’ennesima potenza, marginalità
e ferite comprese.
Con la premessa di non cercare qui la nuova frontiera del genere, Almost
Daylight è una raccolta divisa fra road songs e love songs, come conferma
il protagonista, salda nelle sue certezze, quelle di raccontare
The Damn Truth, cercando una via di fuga in I Won’t Look
Back, parlandoci dei soliti outsider (Trouble Up Ahead, Crooked
Mile) alle prese con le dannate complicazioni della vita. La voce
gratta via la vernice del tempo, è tanto cruda quanto il sound offerto
dal disco, che ricorre alle ospiti Lee Ann Womack (in Send
It On Down) e Siobahn Kennedy per addolcire un po’ la medicina
amara, anche se spiragli di luce e raggiunta maturità si affacciano in
Go On e nella stessa Almost Daylight,
sorta di manifesto romantico che descrive l’alba dopo avere attraversato
le tenebre. Due le cover scelte oculatamente per indicare le ragioni della
sua ispirazione: Flesh and Blood di Johnny Cash, che Knight rende
in una veste meno drammatica e più schietta, ma soprattutto la conclusica
Mexican Home, piccolo capolavoro
di John Prine (in origine pubblicata su Sweet Revenge, 1973), che
qui partecipa e duetta con voce spezzata insieme al figliol prodigo, in
un finale che sa toccare le corde dell'emozione.