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country troubadour di
Fabio Cerbone (20/09/2012)
Slaughters,
Kentucky, 200 anime. Chris Knight guarda l'America e il mondo dalla sua
prospettiva periferica: non gli piace, ma tiene duro e con un misto di individualismo,
dura etica del lavoro, attaccamento alla gente più umile scrive canzoni che continuano
ad essere piccoli romanzi sull'emarginazione. Quando non suona la chitarra cura
la fattoria, il granaio, i suoi 40 acri di terra, che lavora pazientemente, e
se il freddo pungente o qualche tempesta lo costringono in casa non si demoralizza,
ma aspetta tempi migliori. Non c'è niente di più tremendamente americano di una
storia simile: ma non è finzione date retta, questa è hard life vera e
Chris Knight uno dei songwriter più sinceri e schietti che la country music d'autore
abbia conosciuto negli ultimi quindici anni. Tanto tempo è passato dal suo fulminante
omonimo esordio, quello che sembrava proiettarlo nel firmamento di una presunta
nuova Nashville: con gli anni è tornato alla sua dimenzione naturale, perché di
roba così autentica nel music business non sanno che farsene, anche se le canzoni
di Chris hanno conosciuto diverse interpretazioni, spedendogli a casa qualche
utile assegno per i diritti d'autore.
Il migliore interprete di se stesso
resta tuttavia lui e Little Victories lo dimostra a chiare lettere:
immutabile come le stagioni intorno alla sua fattoria, l'ennesimo album di brusco
country rock e ballate populiste arrichisce una discografia comunque importante,
questa volta con una freshcezza e una intensità inedita rispetto al recente passato.
Non il migliore, ma certamente il più ispirato dei suoi dischi da diverso tempo
a questa parte, Little Victories conferma un team di collaboratori e musicisti
ormai assodato: ci sono Ray Kennedy alla produzione, le chitarre chiassose
di Dan Baird, i camei vocali di Buddy Miller e soprattutto gli autori Gary
Nicholson e Craig Wiseman a firmare in coppia diversi episodi. Questi ultimi azzannano
la realtà della crisi ameircana dalla prospettiva dell'uomo del Midwest, tra irriducibili
farmers, classe operaia e gente che è obbligata a tirare avanti con le solo proprie
forze. È questa "american way of life" che Chris Knight narra con assoluta
infallibilità: il ficcante country elettrico di In the
Mean Time introduce la visione d'insieme e non molla più la presa,
prendendosela con l'indifferenza dello Stato e caricando tutto sulle spalle del
malcapitato di turno.
Tirare avanti con quel poco che ti resta, stringere
la cinghia, costruire qualcosa per aggrapparsi al presunto sogno Americano, anche
quando finisci nei guai: Nothing on Me è un
racconto hard boiled in piena regola, con pallottole e risse, Low
Down Ramblin' Blues la solita dura lezione della strada, Hard
Edges è più simbolica, The Lonesome Way invece
parla chiaro e ribadisce il concetto, You Can't Trust
No One diventa infine politica e rassegnata al tempo stesso. Knight
non è un intellettuale del rock'n'roll, sia chiaro, semmai un laborioso manovale
della canzone, che ha imparato a memoria il detto "tre accordi e la verità".
Sa toccare le corde vive delle sue esperienze, scrivendo anche di amore in maniera
niente affatto banale (You Lie When You Call My Name)
e scavando sempre tra efficaci personaggi (Jack Loved
Jesse, ancora sospinta dai fremiti southern rock di Dan Baird). Prendere
o lasciare: qui non ci sono trucchi e neppure novità musicali da spacciare, semmai
la certezza di uno che non ti abbandonerà mai. "Piccole vittorie" insomma, come
nella title track cantata in duetto con l'eroe personale di Chris Knight, John
Prine: sulle sue canzoni Chris ci ha perso le notti da ragazzo, imparando
ogni accordo, oggi il cerchio si è chiuso.