La presa di
coscienza era arrivata con una canzone, Black Man in a White World,
e con un disco, Love
& Hate, che faceva chiarezza sul messaggio di Michael Kiwanuka:
non un altro giovane artista alle prese con la rievocazione, un po’ asfittica,
da revival rispettoso della soul music. Il completamento ideale e il salto
decisivo verso l’affermazione di sé arriva oggi con Kiwanuka,
non a caso titolo che restituisce un senso di ripartenza e maturità al
tempo stesso: il principe è diventato re. Evoluzione delle ambizioni
sonore già esplicitate con il precedente album, grazie agli arrangiamenti
curati insieme ai produttori Danger Mouse e Inflo e adesso portati agli
estremi per bellezza e intensità, Kiwanuka non rappresenta una
semplice raccolta di canzoni, semmai un viaggio nell’esistenza del musicista,
sostenuto da un concept di fondo che prevede interludi strumentali, entrate
e uscite di tono e ambientazione, legando fra loro tutti i brani come
si trattasse di un unico romanzo.
L’effetto è maestoso ma per nulla ridondante, colmo di spunti che saccheggiano
la storia della black music tenendosi a debita distanza da una pallida
citazione: Kiwanuka è dannatamente contemporaneo grazie alla visione
produttiva del disco, ma senza essere asservito alla moda del momento,
in una parola sola “classico” e quindi fuori del tempo. L’indicazione
giunge da You Ain’t the Problem, scansione
percussiva che richiama il maestro Curtis Mayfield e un lussurioso e leggero
intreccio di cori pop e funkadelica anni Settanta, che rappresenta soltano
l’inizio del percorso, lì dove un groove da soul psichedelico e archi
si intrecciano in un sound atmosferico, immerso fra strascichi rock hendrixiani,
orchestrazioni languide, ritmiche funk, con un ruolo centrale di pianoforte,
synth e chitarre analogiche, seguendo un’idea di stratificazione continua.
Da qui spunta la sequenza di Rolling e I’ve Been Dazed,
prima di dissolversi nell’abbacinante blocco melodico di Piano
Joint (This Kind of Love), introduzione spaziale di due minuti
e, a seguire, vera e propria canzone, flebili note al piano, gli archi
in crescendo e la morbida modulazione della voce di Michael Kiwanuka che
non possono non evocare un capolavoro come What’s Going On.
Gli angeli custodi sono ancora lì a proteggerlo: Marvin Gaye, appunto,
così come Curtis, Donny Hathaway, Bill Withers, ma non invadono il campo,
che è adesso nel pieno controllo di Michael, autore sbocciato e in maniera
inaspettata, aggiungiamo noi, se pensiamo agli esordi più timidi
di Home Again. C’è ben altro desiderio che si sprigiona da queste
canzoni, le quali nell’insieme simboleggiano una battaglia (vinta) tra
ansiosa ricerca di sé, della propria identità di uomo e artista nero e
infine della sua accettazione consapevole e orgogliosa. La lotta per l’affermazione
del proprio io di artista - Kiwanuka rivela lo scontro duro con il music
business ad inizio carriera, quelle case discografiche che cercarono di
imporgli un nome d’arte per evitare le presunte difficoltà di pronuncia
del suo cognome - oggi diventa anche metafora per la lotta di emancipazione
in rapporto ai temi dei diritti civili (nel dittico di Hero,
irresistibile e innodico soul rock, anticipato dagli estratti audio d’epoca
di Another Human Being) e dell’immigrazione (la famiglia di Michael è
di origini ugandesi, lui cresciuto in un quartiere prevalentemente bianco
di Londra, Muswell Hill).
Tutto il pregiudizio lo possiamo leggere attraverso gli occhi di Kiwanuka
stesso, che cerca emotività e non proselitisimo, spingendoci nella direzione
di un ascolto multiforme, il quale raggiunge vertici di complessità musicale
e immaginazione sonora nella spazialità di Final Days e Solid
Ground, fino a conquistare una totale confidenza e maturità di spirito
nel finale di Light, titolo mai così
esemplare nell’indicare gesto e suono.