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new soul 2.0 di
Nicola Gervasini (01/08/2016)
Si
potrebbe dire che il capitolo secondo di Michael Kiwanuka potrebbe anche
equivalere all'inizio dell'era "New Soul 2.0". Che è come dire che il
recupero del vecchio soul avvenuto negli anni zero passa ad una nuova fase, che
non è non sarà mai "nuovo", ma semplicemente riadattamento revivalistico di un
altro tipo di vecchio. Il giovane artista londinese aveva già fatto parlare di
sé con l'esordio Home
Again del 2012, disco che ha anche venduto bene, ma che non ha avuto
seguito per ben quattro anni, fino a questo Love & Hate. Anni spesi
bene insieme al produttore Danger Mouse, forse uno dei pochi rimasti sulla piazza
capace di coniugare modernità e vendibilità con la qualità.
E se al suo
esordio Kiwanuka era sembrato solo uno dei tanti nuovi adepti del culto del soul
classico con una insana passione per lo smooth-soul alla Smokey Robinson, qui
si comincia già a sentire un autore e un artista un gradino sopra la media. Basterebbero
anche soltanto i dieci minuti di apertura di Cold Little
heart, emozionante crescendo in chiave soul barocca che riesce in un
colpo solo a sintetizzare tutta la black music classica con l'indie-folk degli
anni 2000. L'album ha una intensità e una qualità di scrittura davvero notevole,
e forse il passo in più che manca è l'introduzione di un po' più di ritmo, una
spruzzata funky che gioverebbe ancor maggiormente al suo cocktail, visto che il
singolo orgogliosamente antirazzista Black Man in a White
World rinverdisce i fasti polemici di Marvin Gaye e Curtis Mayfield,
ma non basta a dare vigore all'insieme. In ogni caso dal punto di vista emotivo
il disco non ha quasi mai punti morti, e gli omaggi al Philly Sound di Falling
e della title-track si imprimono nella mente fin dal primo ascolto.
Da
notare anche un deciso miglioramento nell'uso della voce, che dall'attenta e precisa
maniera del primo album, sta assumendo un tono personale e riconoscibile. Tra
i suoni volutamente retrò di One More Night (niente che non abbia già fatto
Lenny Kravitz negli anni novanta in ogni caso), ballate pianistiche un po' furbe
che cercano il sound di Bill Withers (I'll Never Love) si giunge al convincente
wall of sound di Rule The World, dove cori,
violini e un memorabile assolo finale del chitarrista Miles James regalano uno
dei momenti più epici del disco. Finale con la lunga Father's Child (anche
qui con sezione d'archi strabordante) e una The Final
Frame che fa l'occhiolino a Easy dei Commodores di Lionel Richie, giusto
per chiudere il cerchio delle influenze più evidenti.
Ottima conferma
di un artista che sta dalla parte di quelli che riscrivono con intelligenza e
vero talento.