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Under: heartland country rock
di Fabio Cerbone (10/07/2019)
Squadra vincente non cambia,
anzi raddoppia, e restando sempre in famiglia: infatti, al produttore
e mentore Mike Ness (Social Distortion), che aveva scovato dal nulla la
californiana Jade Jackson, battezzando il suo esordio in casa Anti
di due anni fa, Gilded,
si affianca oggi il figlio Julian Ness alle chitarre, che serra le fila
della band con la sezione ritmica formata da Jake Vukovich e Tyler Miller.
Gli effetti sono evidenti, ribadendo la formula che aveva già conquistato
e convinto con il predecesore: ballate tumultuose dall’anima un po’ ribelle
e dalle fondamenta country roots, ma suoni che si aprono all’epica rock,
seguendo l’esempio dello stesso Ness, che su questa formula ci ha costruito
un’intera carriera, dentro e fuori il suo gruppo di riferimento.
Jade da parte sua si presenta all’appuntamento più consapevole, descrivendo
l’album come il frutto maturo della sua vita, un taglio autobiografico
che sposta le attenzioni da canzoni scritte in terza persona e rivolte
a personaggi fittizi verso eventi direttamente accaduti a lei, cominciando
da quel grave incidente che a vent’anni l’ha vista finire quasi paralizzata,
dipendente da farmaci per il dolore e strappata alla sua passione per
la musica in un turbine di depressione. Mettendo insieme i pezzi di quella
tragedia, per fortuna superata, Jade Jackson esorcizza quella caduta (nel
senso più letterale, un rovinoso schianto su una roccia, nella natura
selvaggia americana) con il titolo stesso, Wilderness, che
diventa poi metafora dell’essere on the road, alla mercé della prossima
città, del prossimo palco e di un pubblico che non sai come ti accoglierà.
Ne scaturiscono canzoni più vigorose nel loro involucro elettrico, ma
al tempo stesso curate e rotonde nel sound, un country rock che sbuffa
libero nella prateria a cominciare dal singolo
Bottle It Up, video che ammicca all’immaginario della strada
con Jade lanciata nel deserto di Joshua Tree. È il canovaccio dell’intero
Wilderness, un disco dove finalmente una nuova giovane voce del
cantautorato al femminile sveste un po’ i panni di docile ambasciatrice
dell’Americana dai tratti folk gentili, per abbracciare il pungente taglio
di Don’t Say That You Love Me, il rock’n’roll dal cuore roots punk
di City lights e Now or Never,
ballate ariose e dagli orizzonti western epici come Multiple
Choice e Long way Home.
Organo, steel guitar e anche un violino distante offrono di tanto in tanto
qualche tonalità bluastra e malinconica (Tonight e Dust
non recidono il legame con la madrina Lucinda Williams), ma il cuore batte
nel combo di base, con la sei corde di Julian Ness che morde senza ferire
la voce della protagonista e papà Mike che produce con un’idea vincente,
anche se un po’ fuori moda: suonare classico, mainstream si sarebbe detto
un tempo senza vergogna, cercando anche si smussare alcune asperità negli
arrangiamenti (le sfumature pop di Loneliness
e Secret).
Un secondo capitolo che è al tempo stesso un passo avanti e la
conferma che ci aspettavamo.