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Under:astral
folk rock
di Pie Cantoni (25/01/2019)
A due anni e mezzo di distanza
da Eyes
on the Lines (che non è mai uscito dalla nostra playlist) appare
il nuovo lavoro, The Unseen in Between, di Steve Gunn, uno
degli artisti più singolarmente affascinanti della sua generazione. Mentre
teniamo in mano il disco (metaforicamente si intende), ci domandiamo:
avrà sonorità spiritate ed evocative come Time
off? O invece sarà più un’intricata trama di chitarre
stratificate e magneticamente miscelate come il precedente? Difficile
pronunciarsi, però una cosa è certa: da Steve Gunn meglio non aspettarsi
l’ovvietà e la ripetizione. Ci ha già mostrato cosa sa fare, le sue doti
immense di chitarrista (anche se fa di tutto per non farlo vedere, con
il suo modo di suonare gentile e dimesso), di scrittore, ed ogni suo lavoro,
nonostante si veda il fil rouge che lo attraversa, ha un elemento che
lo contraddistingue e che lo rende unico.
Allora facciamo spazio tra i nostri pensieri, sgomberiamo i preconcetti
e semplicemente premiamo play. Parte New Moon
e già ci troviamo in un mondo che ricorda il primo Van Morrison ed il
folk inglese, laddove la chitarra e il basso si confrontano alla pari
lungo tutto il brano, con il tremolo che dà una profondità “astrale” al
brano e gli archi che ci catapultano in uno scenario sonoro caleidoscopico.
Troppa bellezza, dobbiamo fermarci un attimo a tirare il respiro. Subito
si riprende e la voce di Steve esce sparata, senza prendere fiato, come
in un discorso molto fitto mentre siamo già immersi in Vagabond,
con le sue reminiscenze di new wave mentre passano sullo sfondo vagabondi
e rinnegati vari, con le loro vite alla deriva. Un primo Bob Dylan che
ha imparato ad andare a tempo. Così come le possibilità raccontate in
Chance, con il suo sapore metropolitano/agreste, in bilico tra
il semplice folk della chitarra e le strade sonore tracciate dagli archi,
con il riverbero che si amplifica e intensifica come rumore di traffico
che rimbalza tra muri di cemento. Stonehurst Cowboy, dedicata al
padre (scomparso purtroppo poco dopo l’uscita di Eyes on the Line), è
il ricordo che Steve conserva e ci racconta, con la chitarra che si evolve
contorcendosi come se si trattasse di un brano di Michael Chapman.
Il cantore del quotidiano, si potrebbe definire Gunn, capace di rendere
poesia anche la storia di un proprietario di un negozietto, Luciano,
e la sua ordinarietà. Mentre New Familiar
è il brano che, per costruzione, fa da anello di congiunzione tra questo
disco e i precedenti, con il suo intricato tessuto di chitarra acustica
e il folle assolo riverberato e distorto in perfetto stile Gunn. Forme
d’arte diverse che si richiamano; Lightning Field è ispirata all’opera
dell’artista contemporaneo Walter De Maria e dalla sua istallazione di
aste di acciaio nel deserto del New Mexico. Il fragile e delicato spirito
di un Nick Drake accompagna la ballata acustica Morning
is Mended. E Paranoid (no, un’altra), coi suoi orizzonti
sonori degni di Lee Ranaldo, ci accompagna gentilmente all’uscita dalla
visione sul mondo di Steve Gunn.
Musicisti d’eccezione suonano in questo disco: James Elkington (chitarra,
percussioni e tastiere), Tony Garnier (nella band di Bob Dylan da trent’anni,
al basso), TJ Mainani (batteria), Macy Steward e Lia Kol agli archi mentre
Meg Baird canta in un paio di brani. Dopo nove brani di grande
bellezza acustica, abbiamo una consapevolezza su The Unseen in Between:
non è la semplice ripetizione di una formula, non ci ipnotizza come un
saperas - l’incantatore di serpenti indiano - al pari dei precedenti dischi
di Steve. Ma ci affascina e ci meraviglia; ci stupisce prima di indicarci
con molto tatto e gentilezza la porta. Questo mondo non ci appartiene
(come non ci apparteneva quello di Van Morrison in Astral Week o di Nick
Drake in Bryter Layter, per intenderci), ma abbiamo la fortuna di poterlo
ammirare, di poter vedere il bello che c’è nel mezzo.