File Under:psych
folk rock di
Fabio Cerbone (01/06/2016)
Il
debutto su Matador di Steve Gunn è la coda brillante di una trilogia discografica,
punto di arrivo di un'arte musicale che si è affinata con il tempo per il chitarrista
e autore di Brooklyn. È soprattutto la conferma che il suo songwriting, pur restando
fedele alle strutture di partenza, ha subito nei vari passaggi una trasformazione,
voluta e ricercata, diventando più conciso, immediato, fruibile. Per quanto lo
possa essere una forma di ballata dall'andamento ossessivo, spesso intrecciata
da più piani compositivi, da chitarre trascinanti che sanno di neo-psichedelia
e trame che attingono a piene mani da certo folk d'avanguardia. Nel passato di
Gunn ci sono le collaborazioni formative con le leggende di culto Michael Chapman
e Mike Cooper, con i Black Twig Pickers e naturalmente con un'anima gemella come
Kurt Vile, dentro un mondo in equilibrio fra antiche suggestioni acustiche e linguaggio
indie rock contemporaneo.
Ma già il precedente e giustamente celebrato
Way Out Weather
indicava senza mezzi termini la direzione di un suono scintillante, cosmico, determinato
nell'offrire fluidità alle canzoni, e oggi tutto questo si riflette nei nove episodi
di Eyes on the Lines. In un certo senso è lo sbocco naturale a cui
ambiva, il disco più scorrevole e maturo della sua produzione: non possiede forse
il fascino scuro e tradizionale di Time
Off e nemmeno la sintesi del predecessore, ma nella circolarità affascinante
delle sue melodie - dall'introduzione di una Ancient
Jules degna del suono Paisley Underground che fu dei Rain Parade all'eterea,
sognante chiusura con Ark - lascia rotolare
queste canzoni in maniera assonnata, procedendo quasi per inerzia. Inciso con
più ambizioni produttive e una band allargata a otto elementi, tra cui spiccano
Nathan Bowles (batteria, banjo, organo), James Elkington (chitarra, lap steel,
dobro) e Jason Meagher (basso, chitarra, flauto), Eyes on the Lines raccoglie
storie e racconti, che lo stesso Gunn definisce "short stories", caratteri
che stanno fra il particolare e l'universale, unendo poi un gusto molto poetico
e metafisico di descrivere le proprie sensazioni.
È un autore a cui piacciono
il potere evocativo delle immagini: per questo la sua musica sa inevitalbilmente
di viaggio e di grandi spazi americani, di deserto e highways in The
Drop e nella splendida elegia elettro-acustica di Nature
Driver. Sembra di osservare un unico grande piano sequenza, magari
scrutando il paesaggio che scorre dal finestrino di un'automobile a velocità di
crociera: a volte scatti e intrecci chitarristici si sovrappongono all'apparente
monocromia del canto di Steve Gunn, producendosi nelle bizze di Full Moon Tide,
nelle scintille psichedeliche di Condition Wild
e nelle nevrosi di Heavy Sails, ma mai eccedendo dall'andatura un po' pigra
delle melodie. Gunn ribadisce chiaramente di essere un fine cesellatore di piccole
epifanie alla chitarra, eppure non fa sfoggio di tecnica fine a se stessa, si
spende semmai per un'atmosfera, per qualche scarto ritmico (Park
Bench Smile recupera sotto traccia alcune fascinazioni per certo blues
africano, già evidenziate nell'album precedente,) procede per impressioni, e ritorna
poi a quel folk rock onirico che in Night Wander potrebbe tranquillamente
accostarlo ad un altro strepitoso talento del nuovo folk americano, Ryley Walker.
Anche Steve Gunn abita, con piena personalità, persino più
indipendente rispetto ad altri colleghi citati, quella terra di visioni desertiche
e immagini pastorali dove il mistero delle radici incontra improvvisamente la
modernità.