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folk maestro
di Fabio Cerbone (01/12/2019)
Si era distratto un attimo
Will Oldham, e nel frattempo sono passati otto anni, tanto separa l’ultimo
dispaccio di materiale originale (Wolfroy Goes to Town, era il
2011) dal qui presente I Made a Place, il ritorno vero e
proprio sulle scene nel nome di Bonnie Prince Billy. Il quale,
in verità, non se ne era mai andato, semmai dissimulato sotto mille altri
progetti e rielaborazioni, sempre coinvolto in quella proverbiale abbondanza
e beata confusione che ha disseminato lungo la sua sconclusionata discografia.
È il tratto distintivo di questo folksinger, quella sfuggente enigmaticità
che non disdegna di ricantare le sue stesse canzoni insieme ad un esemble
di musica da camera (Where We Are Inhuman), passando poi a rifare
per intero un disco di un’artista di culto come Susanna Wallumrod (Wolf
of the Cosmos), prima di inventarsi un tributo alla leggenda country
Merle Haggard (Best
troubadour).
Ce n’è a sufficienza per confondere anche il più testardo degli estimatori,
salvo tornare improvvisamente sui suoi passi e dare una possibilità a
una manciata di canzoni che non dovevano neppure nascere. Proprio così:
è Oldham stesso a ribadire come l’ultimo raccolto di composizioni sia
nato per amore personale durante un soggiorno/ ritiro con la moglie alle
Hawaii, senza l’intenzione di doverle per forza tradurre in uno studio
di registrazione. Convintosi forse della qualità del materiale che aveva
per le mani, Bonnie Prince Billy è riapparso sotto i riflettori, incidendo
I Made a Place con un manimpolo di fidati collaboratori, il tutto
in soli due giorni negli studi della natia Lousiville (il disco è
anticipato dal singolo e realtivo video di At The Back of the Pit,
non presente sul disco). E l’atmosfera rurale, soffusa e amichevole di
queste registrazioni emerge in una sequenza di ballate dal candore esplicito,
brani che cercano di consolare e di trovare gioia in un mondo oscuro e
brutale. L’annuncio arriva con lo zampettio luminoso di New
Memory Box, dove l’involucro country soul si abbraccia ai fiati
di Jacob Duncan, i cui arrangiamenti per flauto e sax segneranno l’intera
raccolta, ora con tratti festosi negli episodi più mossi, altre volte
con toni languidi nei momenti più intimi (con vertici di diafana bellezza
in Nothing is Busted e Thick Air).
Insieme alla seconda voce femminile di Joan Shelley, alle chitarre in
spolvero nashvilliano e ai rintocchi agresti di banjo e violini, donano
al disco un’aura di serenità folkeggiante, un mood rilassato e confidenziale
in molti suoi passaggi (il saluto finale con Building a Fire),
che evidenzia ormai la maturazione di Bonnie Prince Billy in una sorta
di improbabile crooner country folk. La voce è più raffinata,composta,
non esprime il tumulto fatto di disperazione e fragilità che emergeva
nel capolavoro I See a Darkness, anche se quella oscurità è ancora
latente fra le trame sognanti di Dream Awhile, che sciorina una
docile melodia degna della stagione brit-folk anni Settanta, oppure nella
immacolata luce acustica della stessa I Made
a Place. La sua è oggi una saggezza che proviene dall’esperienza
e l’autore maturo si può così permettere antiche folk song degne di un
Pete Seeger (Look Backward on Your Future, Look Forward to Your Past),
walzer solitari per acustica e flauto (This Is Far from Over),
intrecciati a bruschi sapori hillbilly (The Devil’s
Throat) che attingono alla terra del Kentucky in cui è nato,
e struggenti passioni country (Mama Mama,
classica all’istante e un po’ debitrice del citato tributo a Merle Haggard,
vien da pensare).
Elegante e gioviale in un colpo solo, Bonnie Prince Billy indaga con liriche
esistenzialiste la vita, toccando ancora una volta gli amati riferimenti
alla natura, svelando spesso uno sguardo rivolto al passato ma senza mai
peccare di nostalgia: I Made a Place è una delle migliori
prove d’autore della sua scompaginata ispirazione.