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bigger than life di
Fabio Cerbone (03/05/2018)
È
quasi un esercizio superfluo mettersi a contare il numero ufficiale di album raggiunti
dalla discografia di Willie Nelson: in fondo abbiamo capito da tempo che
per la leggenda texana del country fare musica, incidere, in generale suonare
circondato dai più fidati collaboratori, è una questione di aria e di vita, un
soffio in più per andare avanti. Anche in questa primavera del 2018, allor quando
Willie ha toccato le ottantacinque primavere e non sente proprio l'esigenza di
ritirarsi dal centro della scena. Dichiara, anzi, con un misto di orgoglio e ironia,
di essere Last Man Standing, giocando una volta di più con le ombre
della morte, dell'ultimo tratto di esistenza, come ad esorcizzarlo, affermando
che "è meglio avere un cattivo respiro che non averlo del tutto".
Come
si trattasse dell'altra faccia della medaglia rispetto al predecessore God's
Problem Child, disco più riflessivo e adagiato sui toni dlela ballata,
Last Man Standing è una raccolta sorprendentemente vivace e nello sviluppo sospinta
da un miscuglio di honky tonk, western swing, walzer country di marca texana che
tendono a far vibrare le corde della band, a sciogliere gli aspetti più gioviali
e comunitari della registrazione. In poche parole, senza toccare i vertici di
un impossibile capolavoro, è una raccolta tra le più godibili di questo scorcio
di lunghissima carriera di Nelson, a ribadire la scelta vincente di queste stagioni
di farsi affiancare dalla produzione di Buddy Cannon. Insieme i due firmano
tutti gli undici episodi di Last Man Standing, lasciando fluire con naturalezza
la professionalità dei musicisti coinvolti (c'è sempre l'inseparabile armonica
di Mickey Raphael, ma si segnalano anche Jim Moose Brown all'organo e le chitarre
di James Mitchell e Bobby Terry). Dall'altra parte invece staziona la voce di
Nelson, che fatta eccezione per le sfumature affettate e jazzy di Something
You Get Through, mette in disparte il suo amorevole fraseggio da crooner
e sceglie una spigliata veste da texano dalla dura pellaccia, che swinga meditando
su tribolazioni, resistenza e mortalità con piglio pungente e dinsincantato.
Il manifesto è posto in apertura: la title track sancisce che non è ancora finita
e il viaggio prosegue. Il sobbalzare di Don't Tell Noah è il secondo avviso
che in questa occasione ci si divertirà con chitarre, compresa l'immancabile "trigger"
di Willie, piano boogie e armonica bluesy, lascinado quindi il passo all'honky
tonk ridanciano di Bad Breath e alla deliziosa
e sussultante di twang sound Me and You, smaliziata
come buona parte del materiale riunito in Last Man Standing, I Ain't Got Nothing
in testa fra le scelte più goderecce. Con Ready to Roar
è tempo di riempire la pista nel nome di Bob Wills e della tradizione western
swing di casa in Texas, suono segnatamente retrò che si farà strada anche con
la sbarazzina She Made My Day, altro carburante honky tonk nel motore,
swingante di chitarre e pedal steel. Dopo tanto piacevole svago, la chiusura è
doverosamente più intima e carezzevole, da una classica ballata di casa Nelson
quale I'll Try to Do Better Next Time, titolo
ancora voglioso di prendersi tempo, fino all'ampio respiro di Very Far to Crawl.
Inarrestabile Willie Nelson.