La
bandana inseparabile a fasciare il capo, un colore da rosso tramonto che riporta
allo "straniero dalla chioma rossa", ciò che lo rese un tempo immortale tra i
"fuorilegge" e gli irregolari della country music, Willie Nelson
è un uomo del 1933 che ha imparato a convivere con la morte e la vecchiaia tutte
intorno a sé. Molti gli amici che hanno abbandonato le scene, in anni più e meno
recenti, fino all'anima gemella Merle Haggard, la cui leggenda Willie canta un'ultima
volta nella dedica di chiusura He Won't Ever Be Gone.
E riflettendo sulla sua stessa condizione precaria di ottantaquattrenne, al quale
in più di un'occasione hanno scavato la fossa in anticipo, Nelson sembra farsi
beffe dell'età e delle regole non scritte della discografia, che magari vorrebbero
vedere in ritirata un uomo e un artista con la sua esperienza.
Willie
invece è qui a cantare Still Not Dead, spassoso
honky tonk che esorcizza le voci circolate su una sua possibile dipartita, pensando
semmai al prossimo concerto o alla prossima canzone da incidere. Attraversato
dunque dalle ombre della mortalità, con un tono che predilige, fatta eccezione
per la citata Still Not Dead, la malinconia sincera e l'intima confessione, God's
Problem Child ribadisce la splendida stagione del crepuscolo di Nelson,
la sua rinnovata e incredibile qualità di scrittura in coppia con il produttore
Buddy Cannon, insieme al quale firma sette episodi inediti dell'album e
raccoglie altrettanti gioielli nascosti dal songwriting altrui, perfettamente
aderenti al tema centrale del disco. Quest'ultimo suona per la maggior parte rilassato,
un mood che lambisce la ballata country più sentimentale e i toni magistralmente
jazzati su cui ricama la chitarra di Nelson, a volte un cuore spanish e altre
più brusco e rurale che trova in Old Timer (brano
firmato da Donnie Fritts), nelle trame pop di Woman's Love, nella dolce
Butterfly o nel walzer di Lady Luck un
suono sempre attuale, meditabondo e adatto alla saggezza di un vecchio outlaw.
Il feeling perciò non si avvicina alla maniera dei recenti dischi-tributo
e forse neppure alla sorprendente verve country di Band
of Brothers, è qualcosa di più personale e definitivo al tempo stesso.
C'è ancora il Willie Nelson maestro di una honky tonk music fieramente indipendente
da Nashville (Little House on the Hill, il dolce cullare nostalgico di
Your Memory Has a Mind of Its Own, con l'inseparabile
armonica di Mickey raphael), ma l'umore predilige l'intensità scura e la schiettezza
di chi non ha più bisogno di dimostrare nulla (It Gets
Easier canta tra lo sconsolato e il soddisfatto il nostro Willie),
solo dispensare sapienza: da qui la strepitosa densità bluesy della title track,
con le partecipazioni di Tony Joe White (la chitarra ci mette lo zampino
e segna il brano), del giovane discepolo Jamey Johnson e soprattutto di Leon Russell,
catturato in una delle ultime sessioni prima della scomparsa.
Suonato
con un'attitudine quasi dimessa, riservata, God's Problem Child è l'eterno errare
di un cavaliere dell'american music.