File Under:heartland
americana di
Fabio Cerbone (02/05/2017)
John
Moreland ce l'ha fatta. E nella favola di un ragazzo dell'Oklahoma, un po'
fuori posto, per nulla accattivante nella sua stazza enorme e nella verità espressa
dalle sue canzoni, è racchiusa molta parte di quel fascino da America profonda
e marginale che ancora ci ostiniamo a raccontarvi con immutata fiducia. Big
Bad Luv è il disco sul quale scommetere tutto il suo futuro, un solido
songwriter dalla terra di nessuno, con un carico di ballate che sanno di vecchio
e sano heartland rock, che narrano la vita, l'amore, la fede, le persone semplici
con altrettanta semplicità d'approccio.
Il momento in cui Moreland è stato
proiettato oltre i bar di Tulsa e la sua casa di famiglia, luogo dove ancora aveva
inciso il precedente High
on Tulsa Heat, è colto nell'esibizione alla tv nazionale, ospite del
"Stephen Colbert Show". Da allora sono arrivati i tour, la stampa, la
possibilità di suonare a livello professionale, fino alla firma con la 4AD… Avete
capito bene! L'ultima delle etichette che pensereste di associare agli accenti
sudisti e blue collar di queste ballate, che sanno di country e di gospel, di
strade secondarie dove JJ Cale e The Band incontrano John Mellencamp e l'ultima
giovane generazione di storyteller americani. Miracoli, a volte, che accadono
in America, sempre precari e destinati a mettere alla prova il sogno di un musicista.
Nel frattempo John Moreland ha consegnato l'album più maturo della sua carriera
solista, lontano dall'asciutta aria folkie di In the Throes, che lo rivelò
nel 2013, coerente con gli sviluppi del citato High on Tulsa Heat, dove
la spinta elettrica cominciava a farsi sentire.
Non che in queste tracce
troverete slanci da rocker duro e puro, semmai un autore che ha saputo sfruttare
al minimo eppure con efficacia il cuore rurale dei brani: i quali tengono a volte
saldo il timone, orizzonte acustico e secco da cui tutto è nato (No
Glory in Regret, Latchkey Kid), ma si confrontano più che in
passato con le vibrazioni southern soul e i forti accenti twang offerti dal gruppo,
con le chitarre di John Calvin Abney, il dobro di Jared Tyler e il piano di Rick
Steff a riempire gli spazi senza eccedere. Quest'ultimo è stato la chiave
di volta: già motore dei Lucero di Ben Nichols, con le tonalità soul del suo strumento
(e spesso anche dell'organo) ha avvicinato John Moreland alla splendida malinconia
sudista di Nichols stesso, accostando le loro scritture.
Nascono così
le melodie brillanti di Love is Not the Answer,
con lo scampanio pianistico dall'aroma The Band, l'inquietudine roots di Old
Wounds e l'heartland rock sincero di Amen, So It
Be, mentre Sallisaw Blue apre con rustica aria alternative country
e Ain't We Gold vira al rock'n'roll dalle
tinte blues più primitive, confermando anche la duttilità di Moreland alla voce,
capace di tenere sia nella dimensione solitaria da sensibile folksinger dai toni
confezzionali, sia nei panni di un rocker di provincia con la passione per storie
che trasudano emozioni.