È
un ciclo di canzoni da leggersi come una sorta di diario personale sul tempo quello
che ci propone Valerie June nel nuovo album, giunto a quasi quattro anni
di distanza da quel Pushin'
Against a Stone che ne svelò il talento singolare. Se possibile più
multiforme e speziato nella ricetta musicale, The Order of Time si
inoltra nella contaminazione delle radici black dell'artista del Tennessee, provando
a mediare fra antico e moderno, a rinnovare i linguaggi del soul, del blues e
più in generale del folklore americano senza per questo stravolgere l'essenza
di questa musica. È una questione di ritmi, di arrangiamenti, e naturalmente di
una voce sui generis, fanciullesca e ipnotica in alcuni passaggi, senza dubbio
lontana dai luoghi comuni di una autrice afro-americana cresciuta nella bambagia
della tradizione gospel che in famiglia gli è stata tramandata.
Con un
nuovo produttore alle spalle, Matt Marinelli, e una sessione tenutasi per contrasto
nelle tranquille e innevate terre del Vermont, The Order of Time è un disco che
dalle pulsioni del r&b e del soul sudista americano volge lo sguardo all'Africa,
che dalle cadenze del folk più antico si avvicina alla sensibilità indie-Americana
di oggi. L'esito è straniante quanto la vocalità di Valerie, più che mai protagonista
insieme alla stessa famiaglia June, qui riunita (fratelli e padre, ex promotore
di concerti gospel) in Shake Down, l'episodio
più elettrico della raccolta e fortemente marcato dalle spirali blues africane.
Tentativo che riesce anche nella magnetica Man Done Wrong,
da qualche parte fra il Mississippi e il Mali, avrebbe detto Scorsese, e più in
generale contraddistingue tutta la prima parte di The Order of Time, quella più
avventurosa. Indagando il tema universale del rapporto fra vita e tempo, fra senso
di perdita e contrasto con lo scorrere delle giornate, cercando un proprio equilibrio,
Valerie June in qualche modo rilegge la stessa biografia personale, una lotta
ostinata per emergere dall'indipendenza e affermarsi come artista.
Una
Long Lonely Road dunque, come intona nella dolce cantilena dell'apripista,
soffusa ballata che diffonde l'aria pigra del South e fa incontrare passato e
presente della folk music, prima di immergersi più esplicitamente negli schemi
del soul, con l'intreccio di organo, steel guitar e fiati di Love You Once
Made. L'ordito sonoro e il meticciato dell'album sono le caratteristiche più
affascinanti, esaltate dalla voce di Valerie e dalla sua narrazione del quotidiano
e della battaglia con l'elemento del tempo. Accade nella cadenzata If
And, prima che il disco entri in una zona più eterea e mostri forse
una leggera flessione. È il volto "astrale" e sognante di Valerie June, da The
Front Door a Just in Time, passando appunto per Astral
Plane. Archi leggeri, un sound folkie più sfilacciato, non sempre in
grado di proteggere la fragilità del canto stesso della June, che diventa impalpabile
e infantile con With You.
Nella spinta finale The Order of Time
recupera però la sua anima black e sarà anche un luogo comune, ma sembra restituire
la dimensione più consona per Valerie June: nel classico dondolio soul di Slip
Side on By, dialogo tra fiati e organo figlio della scuola dei Muscle
Shoals, e meglio ancora nella conclusione solare, speranzosa di Got
Soul, anche un violino e un banjo a tradire la formazione roots della
musicista, e voci che si aprono alla rinascenza. La conferma che aspettavamo.