Ancora
uno scorcio d'America qualunque in quello scatto di copertina, ma potrebbe appartenere
a una superstrada qualsiasi del nostro paese: pioggia scrosciante, auto in frenata,
un anonimo passaggio nella vita quotidiana di gente che forse si sta recando al
lavoro. Non sono mai state accattivanti le immagini degli album di Craig Finn,
ma di sicuro possiedono un tasso di realismo e sincerità che viaggia di pari passo
con i contenuti della sua musica. La voce storica degli Hold Steady raggiunge
il traguardo del terzo lavoro solista confermando le impressioni positive che
il precedente Faith
In The Future aveva messo sul piatto. Una maggiore ricerca melodica,
arrangiamenti più ambiziosi, un suono moderno che non tradisce però il terreno
di narratore folk che aveva evidenziato nella sua dimensione indipendente dalla
band.
Finn resta uno storyteller fatto e finito, sensibilie catalizzatore
di storie ai margini, di caratteri inchiodati in vicende umane che inseguono speranze,
delusioni, ricordi amari e desiderio di empatia. We All Want the Same Things
lo riassume in maniera perentoria nel titolo e colleziona una manciata
di brani incentrati sulle relazioni personali e sulla necessità delle persone
di riconoscersi negli stessi desideri, alla ricerca di un percorso comune. Lo
fa investendo seriamente, per la prima volta, sulle diverse sfumature del songwriting,
qui spalleggiato dall'apporto fondamentale di Sam Kassirer all'organo e piano
e dal produttore Josh Kaufman, che aprono degli spazi inediti per la musica di
Craig Finn, al tempo stesso familiare nei racconti di
Jester & June e Ninety Blues e più eccentrica in Preludes
e Birds Trapped in the Airport, con i loro sobbalzi di tastiere e sax,
le impronte new wave e pop che si intrecciano agli accenti da rocker urbano, un
po' come se Finn avesse tenuto in conto tanto Lou Reed e Bruce Springsteen quanto
Billy Joel ed Elton John.
Di sicuro una ballata pianistica come God
in Chicago, flusso di coscienza che si riallaccia ai ricordi adolescenziali
del nostro, da St. Paul, Minnesota, non l'avrebbe potuta scrivere se non in queste
nuovo contesto. Come sempre negli album di Craig Finn il peso di parole e musica
assume lo stesso ruolo e il talkin' dimesso della sua voce non è territorio per
tutti i palati: più che in altre occasioni però la luminosità della musica dà
slancio ai brani e quando l'equilibrio fra gli elementi funziona (Tangletown,
Be Honest) anche il cantato di Finn svela uno strano ed efficace approccio
alla melodia. Per il rock'n'roll operaio degli Hold Steady (che qui scalcia improvviso
nell'isolato episodio di Tracking Shots) c'è
sempre tempo: We All Want the Same Things ci offre la colonna sonora ideale per
una manciata di disperate short stories americane.