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rock short stories di
Fabio Cerbone (01/10/2015)
Nel
contrasto fra copertina e titolo è riassunto il senso ultimo delle nuove canzoni
di Craig Finn: uno scorcio di America anonima, periferica, un parcheggio
e un negozio di liquori, una brutta fotografia, non c'è che dire. Poi quel titolo,
Faith in the Future, che sembra ribaltare la prospettiva: nonostante
tutto la vita va avanti. Il secondo lavoro solista del leader degli Hold Steady
si gioca ancora tutta la sua credibilità su quelle storie dal grande nulla americano,
le stesse che popolano da sempre la sensibilità blue collar dell'autore, quell'intreccio
di rock da strada maestra e rabbia punk che lo ha trasformato in un piccolo eroe
del genere, riconoscibile forse proprio per la sua figura così "normale", da anti-divo.
Cifra narrativa spiccata la sua, quasi insignificante invece la faccia da impiegato,
rispetto all'archetipo del musicista rock: Finn continua a percorrere un sentiero
fatto di umanità ferita, vicende quotidiane che dirigono l'obiettivo della camera
su caratteri della middle class americana, descritti con empatia, con ricchezza
di dettagli.
La musica, più di altre volte, si è fatta personale, intrigante,
non un semplice contorno al suo talkin' da narratore: lontano dai riff e dalla
veemenza stradaiola degli Hold Steady, da quella tradizione che rinnova
il gesto dei Replacements e di tutte le bar band perdute nella provincia, Faith
in the Future è un album costellato di sfumature, differente anche rispetto all'esordio
Clear Heart Full Eyes,
laddove flirtava in parte con l'Americana e il folk. Questa volta la produzione
di Josh Kaufman e il coté sonoro costruito dai collaboratori cercano soluzioni
più varie, tonalità che inglobano le diverse sfaccettature del songwriting. Le
canzoni ne guadagnano e Faith in the Future si impone come la produzione più singolare
e interessante di Finn da diverso tempo a questa parte. Soltanto lui può permettersi
di chiudere il disco con un brano intitolato I Was Doing
Fine (Then a Few People Died), battaglia fra speranza e illusione,
proprio come si diceva in apertura. E poi un sacco di figure femminili, come è
di prassi nella musica di Finn e in quel suo declamare, che non sarà per tutti
ma dispiega un certo fascino ascolto dopo ascolto: oggi ci sono Sarah, Maggie,
Christine, Sandra nella sua voce e nei suoi pensieri, in un quel recitato che
è un tratto inconfondibile dell'autore.
Si parte con Maggie
I've Been Searching for Our Son e si è già dentro questa galleria di
personaggi sofferenti e tenaci, l'invito alla ragazza è di respirare e dirigere
lo sguardo verso il sole, a dispetto di tutte le ferite inferte dall'esistenza.
La colonna sonora è un'alternanza di ballate bluastre e rock urbano che lascia
spazio ai fiati di Roman Guitars, alle spirali delle chitarre dell'incalzante
Newmyer's Roof, al lieve pizzicare acustico di Christine e dell'accorata
Sarah, Calling from a Hotel, quest'ultima
uno dei vertici dell'album. Piano e tastiere costruiscono lo spazio, le chitarre
non graffiano ma aumentano i riverberi, la semplicità delle strutture melodiche
scova comunque atmosfere intriganti, restando al tempo stesso fedele allo stile
asciutto e un po' loureediano di Finn: come in Going
to a Show, un sobbalzo di emozioni attraversato da una patina pop,
mentre Trapper Avenue prova a contenere la passionalità rock dello Springsteen
di Darkness on the Edge of Town e il lirismo di Van Morrison in uno strano impasto
di organi e voci sixties.