Un
perfetto sconosciuto alle nostre latitudini, o quanto meno lontanissimo dal ruolo
di prima stella del rock alternativo ricoperto in patria, l'australiano Bernand
Fanning è un segreto custodito gelosamente da chi apprezza qual cantautorato
post grunge nato nella seconda metà degli anni novanta, e che attraverso un incontro
sapiente di melodia pop e accenti roots ha saputo ridare slancio al genere del
foksinger confessionale degli anni settanta. Fossimo abituati alle facili sintesi,
potremmo furbescamente definirlo un Ryan Adams dalla terra oceanica, anche se
storia, stile, approccio di Fanning possiedono una tale solidità di scrittura
da non temere punti di paragone. Brutal Dawn è il quarto lavoro
solista, dopo lo scioglimento della principale creatura artistica dei Powderfinger,
poco più di una leggenda in Australia, e riprende i fili di quel brillante folk
rock dalle trame Americana e pop che ci avvea emozionato ai tempi di Tea
& Simpathy.
Era il 2005 e il nome di Fanning si affacciava
timidamente anche sul mercato internazionale, forse il primo album a sancirne
le qualità di autore per un pubblico più vasto. Da allora però ci sono stati alti
e bassi e una ricerca sonora che non sempre ha dato i frutti sperati. La reunion
con i Powderfinger è durata lo spazio di un disco, mentre la pubblicazione del
nuovo capitolo solista Departures aveva spiazzato non poco gli estimatori del
suo lato più acustico. Con l'uscita di Civil Dusk nell'estate del 2016, Fanning
è tornato all'ovile e Brutal Dawn non rappresenta altro che il secondo tempo di
quel disco, una sorta di indissolubile legame dove il primo simboleggia sentimenti
di lirismo, tenerezza e romanticismo e il secondo una risposta guidata dal desiderio
di rinascita, riconciliazione con se stessi e crescita personale.
Entrambi
registrati con il sostegno strumentale dei Black Fins e la produzione di Nick
DiDia (Pearl Jam Bruce Springsteen, Aimee Mann), con materiale che proviene
dalle esperienze di soggiorno in Spagna, Galles e Australia, sono raccolte di
canzoni con un sound coerente e cristallino, che oggi, dalle movenze per violino
e chitarre acustiche di Shed My Skin alle
trame pop sfavillanti del singolo Isn't It a Pity
riportano a galla il Bernard Fanning migliore, uno al quale non fanno difetto
emozione e chiarezza nel timbro della voce, qui ribadito nella scelta di brani
dalle inflessioni elegiache e per la maggior parte folkie come How Many Times?
e Say You're Mine, con tanto di pedal steel, e ancora nel dolce cullare
rootsy di Somewhere Along the Way e No
Name Lame, in una pianistica melodia che sottende la splendida
In The Ten Years Now e che sarebbe piaciuta davvero tanto al Ryan Adams
di Gold.
Nella ingannevole semplicità di fondo delle melodie si nascondono
suoni e arrangiamenti cesellati al millimetro, ballate scritte ad arte per esaltare
il tono del cantato e trasportarci nelle risposte che Brutal Dawn sembra offrire
al suo predecessore, fino alla magistrale chiusura di Letter from a Distant
Shore.