File Under:woman
in blues di
Fabio Cerbone (18/01/2016)
Lunga
linea di asfalto - delle tante che segnano l'immaginario musicale americano -
la Interstate 20 attraversa le terre del Deep South, unendo in un solo colpo d'occhio
la Carolina del Sud con il Texas, passando per Georgia, Alabama, Mississippi e
il nord della Lousiana, luogo quest'ultimo da cui la stessa Lucinda Williams
proviene. È in questo dato geografico e umano che risiede il senso ultimo delle
quattrodici canzoni raccolte in The Ghosts of Highway 20, un ciclo
di memorie, caratteri (e fantasmi, appunto) che hanno la velleità di un concept
album e l'anima di un'unica ballata dolente. Segnato dalla morte del padre Miller
Williams, già evocato nel precedente Down
Where the Spirit Meets the Bone, intriso di ricordi e invocazioni nate
sulla strada, tra le miglia percorse in una vita di autrice e musicista vagabonda
e controcorrente, il disco entra di diritto in quella schiera di produzioni di
Lucinda Williams che si fanno scontrose, inquiete, tristi fino a lasciare un groppo
in gola.
Un po' come accadde per Essence, inatteso capitolo dopo il grande
successo di Car Wheels, anche The Ghosts of Highway 20 insegue i trionfi e le
celebrazioni del citato Down Where the Spirit Meets the Bone, doppio monumentale
che ha conquistato critica e pubblico portandosi a casa un premio agli Americana
award come album dell'anno. Costruito sulle intuizioni sonore di quest'ultimo,
ancora prodotto insieme a Tom Overby e Greg Leisz, nonché marchiato dalle presenze
dello stesso Leisz, di Val McCollum e Bill Frisell alle chitarre, il nuovo capitolo
è l'altra faccia della medaglia: conserva l'involucro e gli arrangiamenti del
recente passato, ma declina buona parte degli episodi secondo un mood pigro e
sofferente, fra romantici walzer (Place In my Heart, l'interminabile racconto
di Lousiana Story) e preghiere disperate (Death
Came) che sembrano indagare il senso di caducità della vita. La voce
della Williams diventa così un lamento country blues, un mormorio, fino allo spasimo
della conclusiva Faith & Grace (that's
all I need more faith and grace, ripete come un mantra), mentre la band spande
umori da laid back sudista, chitarre singhiozzanti e dilatate, diremmo quasi astrali.
La lunghezza e il tono rendono estenuante l'ascolto e meno diretto l'impatto,
se paragonato al predecessore, più vario negli umori e a volte abbadonato a scorribande
rock'n'roll. The Ghosts of Highway 20 viaggia dunque sulle 1500 miglia della Interstate
con il motore a bassi giri, a volte sciogliendo le briglie dei musicisti in Dust
e nella stessa scurissima title track, ma mai abbandonando la cappa un po' grigia
del racconto. Lucinda brontola il suo country da crepuscolo e adatta due cover
d'eccezione: la prima è una completa riscrittura di House of Earth di Woody
Guthrie, trasformata in una scura ballata rock dalle visioni desertiche, la seconda
una springsteeniana Factory
(tre le più "rurali" composizioni di Darkness, che anticipava in qualche modo
l'avvento folk di Nebraska) a cui viene messo in bocca un acre sapore sudista
e tremolanti chitarre swamp. Il resto del repertorio non fa altro che collezionare
piccole epifanie della vita di Lucinda Williams ai bordi della I-20, metafora
stessa del suo percorso artistico votato alla peregrinazione, nella più pura tradizione
americana: una curva, una casa, un volto, un cantante sul ciglio della carreggiata,
ogni scusa è buona per declamare liriche che affondano nella carne di amore e
morte, immagini dolorose di perdenti e richieste diperate di amore, in titoli
come Bitter Memory, If My Love Could Kill Me
o If There's a Heaven.
Musicalmente scorbutico ed eccessivamente
malinconico, The Ghosts of Highway 20 è uno di quei dischi che sembrano nutrire
più l'anima dell'artista stesso e assecondare meno le richieste dell'ascoltatore,
sempre che non vi lasciate trascinare dentro la coltre dei sentimenti di Lucinda
Williams.