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southern comfort di
Fabio Cerbone (02/10/2014)
Da
qualunque parte lo si giri, Down Where the Spirit Meets the Bone
resta un trionfo. E non tanto perchè, come qualcuno si è già azzardato a definirlo,
si tratti del disco migliore della sua produzione - nel caso mi pare resti immutato
il fascino perfetto delle radici sudiste in Car Wheels on a Gravel Road o persino
l'epifania dell'artista, sbocciata nell'omonimo
album del 1988, da poco ristampato - quanto semmai per la sua capacità
di definire un'intera carriera, il gesto stesso di un'artista irriducibile, che
ha faticato parecchio prima di essere riconosciuta. Il titolo, bellissimo, Lucinda
lo ha rubato al padre poeta, Miller Williams, di cui ha musicato alcuni versi
finiti in Compassion. È la traccia acustica,
scarna e assai traditrice che apre il nuovo monumentale doppio album. Il tradimento
è nel suono, perché tutto quello che arriverà dopo non assumerà affatto le sembianze
di una raccolta folk, ma certo non nell'essenza dei versi, che anzi rappresentano
una sorta di manifesto: la compassione che Lucinda reclama è per il mondo e la
sua crudelatà nonché per la sua stessa vita personale, combinando canzoni che
da una parte hanno un forte carattere narrativo (East side of Town, West
Memphis) e dall'altra la solita dolorosa, malinconica e autentica espressività
(l'irruenza elettrica del capolavoro Foolishness
su tutte) che deriva dall'intimo dell'artista.
Certo, per ribadire questi
concetti, in fondo quelli che accompagnano da sempre la sua musica (come tutti
i grandi, ancora una volta, Lucinda scrive sempre la stessa canzone), non c'era
forse bisogno di pubblicare venti brani, spalmati in circa 103 minuti di durata,
ma Down Where the Spirit Meets the Bone è anche l'esordio ufficiale della sua
etichetta - Highway 20 Records - e tale indipendenza in qualche modo andava sfogata.
Ecco spiegato dunque il profluvio di jam chitarristiche in studio, le code strumentali,
la libertà di esecuzione dal vivo, anche vocale, tanto è vero che il registro,
pur limitato, della Williams non è stato mai utilizzato così intensamente, un
saliscendi di mormorii, fremiti e confessioni. Il tutto racchiuso da una calda
ambientazione sudista che sfilaccia il country&soul dell'autrice della Louisiana
in un'improvvisazione continua, tra paludosi swamp blues (la sanguigna
Protection, Something Wicked This Wat Comes, la chitarra e l'armonica
dell'ospite Tony Joe White in West Memphis),
scudisciate southern rock (il riff assassino di Everything
But the Truth, ad esempio), tenere ballate roots (nel finale del primo
disco, It's Gonna Rain, compare anche la seconda voce di Jakob Dylan) e
fiammeggianti folk rock (Walk On, classica
e con profumi sixties).
Gioco facile direte voi, una volta chiusi in studio
con Greg Leisz, anche abile regista di questo colossal sudista, la sezione
ritmica di Elvis Costello (Pete Thomas e Davey Faragher), Ian McLaglan (organista
e leggenda ex Faces) e una pletora di chitarristi (oltre al fido Doug Pettibone
e alla comparsa di Bill Frisell, una buona parte del lavoro è rimesso nelle
mani dello stesso Leisz, di Stuart Mathis dei Wallflowers e Val McCallum) da fare
invidia al più scafato dei rocker americani. L'intero progetto poteva in ogni
caso sfuggire di mano, diventare insomma una parodia di se stesso: non accade
mai, anche quando Wrong Number, Big mess o Temporary Nature (of
Any Precious Thing) rivangano lo stesso romantico terreno fatto di southern
soul e memorie dei Muscle Shoals, oppure quando Cold Day In hell e la cullante
ballata country This Old Heartache rifanno
il verso alla Williams che conosciamo da una vita. Alla fine arrivano i nove minuti
della cover di Magnolia, che nemmeno il buon
JJ Cale avrebbe mai sognato in questa versione - strascicata, sospesa, magnifica
- e tutti i dettagli vanno a farsi benedire.