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folk di
Fabio Cerbone (01/08/2016)
Un
anno trionfale il 2015 per Ryley Walker, in un crescendo di conquiste artistiche
e con una maggiore consapevolezza del suo songwriting: Primrose
Green selezionato da una buona parte della critica fra le rivelazioni
discografiche della stagione, e una conseguente sequela di concerti, quasi duecento
date, hanno rafforzato la figura del giovane autore e chitarrista di Chicago.
Ci si poteva aspettare un momento di pausa, un riassetto delle idee per cercare
nuovi sbocchi alla sua scrittura, ma evidentemente Ryley è in stato di grazia
e ha voluto sfruttare fino in fondo l'ispirazione. Ha avuto ragione, non c'è che
dire, in barba alle leggi ormai scardinate del music business: un tempo queste
otto canzoni avrebbero sedimentato per un raccolto forse più ricco, persino per
un doppio album ambizioso, perché no, oggi sono invece la fotografia esatta di
un passaggio, che Walker ha voluto fermare all'istante, desideroso di mostrare
l'altra faccia del suo folk rock dalle vibrazioni cosmiche.
È accaduto
lo scorso inverno, quando Golden Sings That Have Been Sung, quaranta
minuti coerenti e segnati da una verve compositiva estatica e malinconica, ha
preso forma durante il periodo natalizio, di ritorno a Chicago, inseguendo un
clima familiare e al tempo stesso nuovi stimoli. Questi ultimi sono apparsi attraverso
la figura di LeRoy Bach, strumentista e produttore conosciuto per la sua
militanza nei Wilco, con il quale si è instaurato un dialogo aperto alle contaminazioni
della scena post rock cittadina. Da sempre fan della musica di Gastr del Sol e
Tortoise, Ryley Walker ha voluto e cercato questo incontro, anche se la personalità
delle sue canzoni resta circoscritta in un preciso immaginario sonoro, si potrebbe
azzardare persino più indipendente rispetto al passato, quando non mancarono le
accuse di ripercorrere i sentieri di John Martyn o Tim Buckley.
Quella
radice alimenta ancora l'albero musicale di Golden Sings That Have Been Sung:
nelle lunghe cavalcate un po' oniriche di Sullen Mind
- psichedelica e serpeggiante, con un cambio di registro nel finale
e le spirali della chitarra di Ryley - e della conclusiva Age
Old Tale, rapita e scura nel suo procedere imbambolato. Eppure l'album
risulta assai meno pervaso dalla vena jazzistica del predecessore, dal suo spirito
di naturale improvvisazione, avanzando nei territori di un folk psichedelico sospeso
fra terra e cielo, che alterna momenti di estasi e tranquillità acustica, come
nella dolcissima I Will Ask You Twice e nella pastorale The
Roundabout, a visioni più elaborate ed espanse del proprio suono, come
avviene nell'iniziale The Halfwit in Me, scelta
quasi fosse una sorta di manifesto. La chitarra di Ryley è ancora il filo conduttore
attorno al quale costruire gli anelli concentrici della strumentazione, ora indugiando
tra la voce dimessa e l'onirica melodia di Funny Thing She Said, ballata
malinconica tra piano e violoncello, sospesa tra le brume inglesi e David Crosby,
altre volte sui ritmi circolari di A Choir Apart.
Un disco che
lascia ancora una volta sgorgare una musica rapita da un flusso di coscienza,
un'alchimia delicata fra sogno e realtà, fra alba e tramonto.