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on Solid Air di
Fabio Cerbone (01/04/2015)
Là
dove All
Kinds of You rimandava a un primo tentativo di indipendenza musicale,
lasciando intuire la nascita di un nuovo talento del folk contemporaneo, così
Primrose Green espande il linguaggio sonoro di Ryley Walker,
attraverso improvvisazioni jazzistiche, chitarre imbevute di morbida psichedelia
e richiami al folk rock anglosassone che ne decretano la piena realizzazione.
È un piccolo miracolo di equilibri questo lavoro del giovane chitarrista di Chicago,
nemmeno venticinque anni all'anagrafe, eppure un'anima vecchia come la sua musica.
Potremmo partire infatti dalle accuse più facili: finanche la copertina esprime
un immaginario preciso, sa di bucolico folk settantesco, e il contenuto ne conferma
le linee principali, un continuo evocare i fantasmi di John Martyn, qui vero nume
tutelare, e ancora Tim Buckely e Tim Hardin per gli aspetti del songwriting, a
cui potremmo aggiungere per forzatura la buonanima di John Renbourn (Pentangle),
giusto per tributargli un ricordo, vista la recente scomparsa.
Sono nomi
che anche in occasione dell'esordio (in precedenza diverse collaborazioni sulla
scena indie di Chicago insieme a Daniel Bachman) erano sorti spontaneamente, tanto
le ballate oniriche e serpeggianti di Ryley Walker sembravano intrise di quella
stagione musicale. Che sia un limite o meno, qui è raccolta una musica così libera
e sognante che fa piacere ritorni a galla, con tutto il suo carico "retrò" se
volete, ma l'intesa con la band, l'espressione degli strumenti, l'idea di non
comprimere le radici folk in un vestito troppo tradizionale sono un messaggio
che Walker riporta alla luce con orgoglio. Il balzo in avanti è netto fin dalle
note della title track, armoniosa nei tratteggi fra pianoforte e picking delle
chitarre, mentre Summer Dress e Same
Minds dischiudono le caratteristiche dell'intesa mosicale con la band,
improvvisazione in studio che sa di performance dal vivo e che evidenzia il sostrato
jazzistico della sezione rimitca (Frank Rosaly alla batteria e Anton Hatwich al
contrabasso), di comune accordo con le essenziali sfumature del vibrafono di Jason
Adasiewicz, del violoncello di Fred Lonberg-Holm e del piano di Ben Boye.
Un
esemble che si arrichisce di volta in volta seguendo gli umori del protagonista:
Ryley Walker disegna pochi versi, quasi dei mantra, lasciandosi trascinare
dall'interazione fra testo e musica, tra caos e studio accurato della canzone.
Love Can Be cruel è dunque un volteggiare
continuo fra le trame del fingerpicking elettro-acustico e una lenta catarsi finale,
placata poi dalle dolci radici country blues di On The
Banks Of The Old Kishwaukee, splendida oasi tradizionalista, che si
dischiude ai sei minuti e oltre di Sweet Satisfaction.
L'ombra di John Martyn giganteggia su quest'ultimo brano (eccessivo forse l'effetto
imitativo del canto), che tuttavia contiene una strisciante chitarra in odore
di acid rock, esplodendo letteralmente nella coda con un sussulto ritmico e un
dialogo serrato fra batteria e sei corde: puri anni settanta, catapultati in una
macchina del tempo. Come nella stessa All Kinds of You,
palese rimando nel titolo al disco precedente e composizione fra le più vecchie
dell'album, che apre nuovamente le porte alla libertà del linguaggio musicale.
Il conciliante folk per acustica e violoncello di The High Road e la conclusione
di stretta osservanza british di Hide in the Roses
ci riportano sulla terra, dopo un viaggio fatto di grande disciplina e fantasia
strumentale. Splendido.