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alt-country pioneers di
Fabio Cerbone (01/04/2016)
A
Willy Vlautin, deus ex machina dei Richmond Fontaine, piacciono i cavalli
e i titoli chilometrici: non fa eccezione evidentemente You Can't Go Back
If There's Nothing To Go Back To. Un altro dato fondamentale, lo diamo
per scontato per chi ha dimestichezza con la storia della band, è che i dischi
della formazione di Portland sono raccolte di "short stories", come
direbbero gli americani, messe in musica dal talento letterario di Vlautin stesso,
guarda caso più apprezzato ormai come scrittore. Qui si inizia con un prologo,
Leaving Bev's Miners Club At Dawn, suggestivo strumentale da panorami western,
e si chiude con la pianitica, dolente Easy Run: nel mezzo pennellate di
piano, organo e pedal steel e nostalgici accenti twang fra le chitarre di I
Got Off The Bus, I Can't Black It Out If I Wake Up And Remember
e della strepitosa Don't Skip Out On Me.
Questa cifra stilitica è ciò che ha distinto l'opera dei Richmond Fontaine
nel tempo, divenendo una delle creature più affascinanti di quel rock americano
dai margini, dove fascinazioni country, folk rock bluastro e storytelling di razza
hanno convissuto a meraviglia, dando vita a una galleria di album e personaggi
dal grande nulla del paese, quasi una mappa umana della nazione. You Can't Go
Back If There's Nothing To Go Back To pare sia, dopo vent'anni abbondanti di carriera
nel culto (con riviste come Uncut che li ha più volte eletti paladini della scena
alt-country), l'atto finale di questa storia: Willy Vlautin ha annunciato infatti
la chiusura di un ciclo (per aprirne forse un altro con i Delines),
il rompete le righe, non prima però di sostenere l'uscita del disco, nel corso
di tutta la primavera e l'estate dei festival, attraverso un lungo tour di addio.
Una festa finale e una colossale sbronza, così dice Vlautin stesso, sanciranno
il termine del viaggio.
La decisione arriva dopo che il membro fondatore
Dave Harding ha cambiato vita, trasferendosi in Danimarca, ma sospettiamo che
di mezzo ci siano anche l'attrazione sempre più forte per la narrativa da parte
di Vlautin e la sua nuova creatura musicale, i citati Delines. Che sia o meno
il canto del cigno per i Richmond Fontaine, You Can't Go Back If There's Nothing
To Go Back To è un disco di una bellezza crepuscolare, uno degli episodi più musicali
partoriti dalla band, senz'altro meno scontroso del celebrato predecessore The
High Country. Canzoni e suoni dal lato oscuro dell'american dream tornano
al centro del discorso, il gruppo si esprime più compatto con l'arrivo del nuovo
bassista Freddy Trujillo, e il passo sofferente e agrodolce del loro country rock
di frontiera si anima di ballate con un cuore melodico e straziato al tempo stesso
(Wake Up Rain), richiamando un altro loro
apprezzato lavoro, Thirteen Cities.
Vlautin, che non ha mai cantato con
tale convinzione come oggi, si è immaginato una sorta di conclusione per le vite
dei personaggi presenti nei dischi passati: dopo un continuo peregrinare attraverso
l'America qualcuno di loro è tornato da dove era partito, altri hanno trovato
un posto dove fermarsi e placare l'anima. Questo gioco di rimandi con la storia
stessa dei Richmond Fontaine ha prodotto un sound più rotondo (Don't Skip Out
On Me, Tapped Out In Tulsa), che possiede
il tono western del Dylan che danza sul border messicano e quello aspro dei Green
on Red più impolverati (A Night In The City),
sotto i panorami ideali della machcina da presa di Sam Peckinpah.