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Oklahoma home di
Fabio Cerbone (01/04/2016)
Bastano
quaranta minuti scarsi a Parker Millsap per chiarire la questione e segnare
una distanza fra lui e qualsiasi altra giovane voce dell'Americana che voglia
conquistare le luci della ribalta. Insediato in pianta stabile in quella ristretta
cerchia che vede Jason Isbell, Chris Stapleton e pochi altri portare la fiaccola
della tradizione rinnovandone il percorso, questo ventitreenne dell'Oklahoma rilancia
e raddoppia a due anni dal suo omonimo
e già promettente esordio. The Very Last Day è un altro piccolo
disco, ma un grande balzo nella direzione di un folk elettrico, dinamico e palpitante
dove le radici rurali del musicista si fanno ancora più esuberanti e cariche di
tentazioni rock, riuscendo nel non facile compito di mantenere in equilibrio storie
e versi di una certa profondità con canzoni dall'appeal immediato.
Figlio
di un pastore pentecostale, cresciuto fra i canti religiosi dell'America più nascosta,
Millsap è un autore che non rinnega il passato, ma allo stesso tempo non si fa
trascinare da una semplice riproposizione delle sue regole: in questa musica vibrano
spiritualità gospel, diavolerie blues ed eccitazione rock. Viaggiano di pari passo,
mettendo in discussione il piccolo mondo della provincia in cui il ragazzo è diventato
adulto. Ecco perché in Heaven Sent parla della
condizione di un ragazzo omosessuale e del suo desiderio di accettazione da parte
del padre, magari sullo sfondo di una società assai bigotta e chiusa come può
essere quella americana dell'Oklahoma. E così prova ad affrontare i grandi temi
della morte e della religiosità dall'angolazione particolare di Hades
Pleads o Tribolation Hymn, breve
invocazione dai toni apocalittici quest'ultima che chiude con eleganza il disco,
prima di immergersi nelle "preghiere" di un ladro in Hands Up e di fare
il solito giro fra peccato e redenzione in vicende d'amore un po' complicate (gli
altri episodi sparsi qui è là lungo il tragitto).
L'esito è una raccolta
spumeggiante nella quale i colori vintage di certe soluzioni strumentali, le brusche
fondamenta hillbilly e rock'n'roll della musica di Parker Millsap si uniscono
all'attualità del suono Americana, senza apparire una pallida riproduzione di
stile: nella freschezza delle melodie e in una voce niente affatto comune risiede
il segreto di questo Okie degli anni duemila, con quel saliscendi di falsetto
e potenza che esprime il suo canto. La produzione secca e la band d'impostazone
roots (con violino di Daniel Foulks e piano e organo di Tim Laver a spargere semi
di tradizione) tengono botta, ma non cedono in fatto di energia: assaporatelo
questo sound convulso, al fondo acustico eppure rock, nell'apertura pungente della
citata Hades Pleads, tutta scatti ritmici, oppure seguite le curve di una
irresistibile Pining. L'eco della memoria
folk e dell'educazione gospel di Millsap si affacciano con prepotenza per l'intero
The Very Last Day: sostenuto anche dalle voci delle ospiti Aoife O'Donovan
e Sara Watkins, Parker gorgheggia in Morning Blues, graffia con
piglio sudista nella stessa title track e in Whereever
You Are, innalza inni con Heaven Sent, che si dischiude acustica
su un giro di accordi che ricorda The River di Springsteen e si trasforma presto
in un'altra ballata dai ferventi toni spiritual.
Il trait d'union con
i progenitori dell'american music si intitola invece You
Gotta Move, è il classico blues di Mississippi John Hurt già immortalato
dalla versione dei Rolling Stones e qui tuttavia per niente scontato nelle corde
di Millsap: voce tonante, emozioni a fior di pelle, un violino a condurre la danza,
l'anima di un folclore musicale che si reitera continuamente.