Gli aggettivi che inevitabilmente ricorreranno di più accanto alla musica di Steve
Gunn saranno ipnotica, rapita, metafisica, seguendo una linea che distingue
il carattere libero di queste composizioni. Tutto vero, anche se il rischio di
una facile banalizzazione di un album come Time Off è dietro l'angolo:
d'altronde il chitarrista newyorkese non fa nulla per nascondere il suo percorso
artistico, quelle intenzioni che tradotte in note lo inseriscono in una precisa
corrente, quel folk dalle trame psichedeliche che parte dalla radici americane
e si intreccia fra cielo e terra con il mistero di una musica esotica, sulle vie
che dall'Africa portano in India. Discepolo di John Fahey, Robbie Basho e collaboratore
di Micheal Chapman, nomi che circoscrivono già un mondo, amico della tragica figura
di Jack Rose, altro cantore dello psych folk contemporaneo, infine partner artistico
di Meg Baird e soprattutto di Kurt Vile (in tour con la band di quest'ultimo,
The Violators), Gunn disegna il suo tragitto affermando di partire dalle rive
del Delta del Mississippi per approdare alla meno conosciuta formula della tradizione
Gnawa (area del Marocco) e Canartica dell'India meridionale.
Quanto tutto
questo si sia tradotto nelle sue opere è persino difficile da decifrare, perché
fedele al basso profilo della scena indipendente, Gunn ha disseminato la sua produzione
copiosa e frastagliata fra edizioni limitate e introvabili, persino antiquate
cassette, dividendosi tra le pubblicazioni con il trio GHQ (Pete Nolan e Marcia
Bassett gli altri compagni di avventura), il duo con il percussionista John Truscinski
e i dischi solisti veri e propri. Time Off in questo nebuloso cammino è forse
uno dei progetti più accessibili e classici, lì dove sei tracce su sette portano
allo scoperto la voce distante, assonnata di Gunn, quasi uno strumento nello strumento
che diventa parte del tutto, avvolta nel mix generale. Registrato con la formula
del trio, aggiungendo il basso di Justin Tripp al fedele ritmo di Truscinski,
il disco serpeggia per quaranta minuti di lunghe litanie che tuttavia si aprono
improvvisamente a squarci di melodia (Water Wheel
in apertura) e librano frammenti blues elettrici (nella splendida Lurker)
in un'atmosfera per buona parte acustica.
Raga incantevoli e ripetitivi
accompagnano lo stile di Gunn, che riesce miracolosamente ad essere meno stilizzato
di quello del collega Vile, conservando un fascino più ancestrale: accade nelle
curve jazzy che attraversano il blues lisergico e imbambolato di New
Decline o ancora nei rintocchi "sinistri" della dilatata Old
Strange. Pur nella sua magrezza di suono, Time Off si nutre del perfetto
intreccio del trio, sublimato in qualche modo nel finale strumentale di Trailways
Ramble, quasi nove minuti di zigzagare acustico tra folk e avanguardia
con un tappeto di violoncello che rimanda ai Velvet Undergournd. Un'opera che
attira e respinge, come molta della memoria da cui attinge a piene mani, eppure
svela un musicista assolutamente da scoprire.