Sulla scia del contemporaneo rinascimento folk a tinte psichedeliche e con sprazzi
di arrangiamenti jazz, il nome del ventiquattrenne Ryley Walker reclama
a gran voce il suo spazio. Dopo l'interessante viaggio onirico di Steve
Gunn la scorsa stagione, anche il qui presente All Kinds of You
si va a collocare in quella terra un po' desolata e affascinante di raffinati
picker acustici che cercano di inseguire i fantasmi di lontane stagioni a cavallo
dei sixties: quelle della riscoperta folk blues in casa Takoma di John Fahey o
ancora meglio delle tormentate anime di Tim Hardin sulla costa americana e di
John Martyn e Bert Jansch su quella inglese, giusto per rendere subito espliciti
i punti di riferimento del giovane chitarrista di Chicago. Non per tagliare immediatamente
le gambe al buon Ryley Walker, consapevoli di paragoni insostenibili per chiunque,
ma le trame delle sue melodie, la ricerca sullo strumento, le stesse evidenti
radici musicali, conducono con naturalezza a quel percorso artistico.
La
sua storia affonda nella scena più sperimentale di Chicago, attraverso alcune
collaborazioni con il chitarrista Daniel Bachman e la realizzazione di due ep
assolutamente indipendenti, prima di approdare alla Tompkins Square con un vinile
di soli tre brani, che lo scorso anno ha anticipato il vero e proprio esordio
discografico. Un luogo ideale quello dell'etichetta di San Francisco, da sempre
interessata a queste sonorità e in generale a rinverdire i fasti una folk music
americana per vocazione defilata e sotterranea (si veda l'esordio di Hiss Golden
Messenger). Registratto sotto le direttive di Cooper Crain (della band dei Cave)
e con gli interventi assai misurati di una sezione ritmica dalla struttura jazz
(Ben Billington e Dan Thatcher) su cui si inseriscono le rifiniture del piano
di Ben Boye e della viola di Whitney Johnson, All Kinds of You alterna ballate
e strumentali che sono piccoli mantra di malinconica poesia acustica.
La
voce di Walker non è un miracolo di estensione, ma possiede tutta la seduzione
per evocare effettivamente lo struggimento bluesy di un compianto Tim Hardin (splendida
la breve Great River Road, così come il duello
con l'elettrica di Brian J. Sulpizio in On the Rise)
e la complessità di scrittura di un Tim Buckley che emerge in The
West Wind, Blessings e Clear the Sky. Ma lasciate pure
in disparte queste fascinazioni e continui richiami - colpa della pigrizia del
vostro recensore di turno - occorrerebbe entrare semplicemente nella mente del
musicista Ryley Walker, abbandonandosi al sinuoso e magico folk jazz di Twin
Oaks, Pt. 1, poi ripreso in una dilatata seconda parte che lascia riverberare
tutte le sfumature della chitarra del protagonista, sia quando prende la parola
in solitaria (la chiusura con Tanglewood Spaces), sia quando si accompagna
ai rintocchi svolazzanti del pianoforte, come in Fonda.
L'immagine di copertina racconta una "spendida solitudine" e un raccoglimento
che potrebbero uscire dall'ultima opera dei fratelli Coen, ma Ryley Walker non
è un "Llewyn Davis" qualsiasi...