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Frazey in Memphis di
Fabio Cerbone (01/11/2014)
Seguendo
in modo naturale le intuizioni dell'interessante esordio solista del 2010, Obadiah,
Frazey Ford svela ancora di più il suo bagno purificatore nel soul d'annata,
raggiungendo una perfezione invidiabile grazie al nuovo Indian Ocean.
Disco che si merita tutte le attenzioni possibili, perché riesce nella non facile
operazione di far collimare fra loro sensibilità e stili differenti, suonando
classico, eppure non una semplice operazione di revival, magari da inserire nella
riscoperta di certe sonorità "black" del passato, tanto in voga oggigiorno. Il
punto centrale resta la voce di questa ragazza canadese di Vancouver, cresciuta
tra comunità hippie e culto dell'America folk, già animatrice del progetto Be
Good Tanyas e maturata, con certosina pazienza, in una affascinante chanteuse.
I fraseggi e tutti gli arzigogoli del suo timbro hanno una matrice roots indiscutibile,
che tuttavia viene amalgamata in modo sorprendente con il mood ricreato in studio
dalle nuove collaborazioni.
Sono queste ultime infatti a rappresentare
la chiave di volta dell'intero lavoro, che imbarca la leggendaria sezione ritmica
di Al Green e degli Hi Studios di Memphis - storia della black music, signori!
- formata da Charles Hodges all'organo, Leroy Hodges al basso e Teenie Hodges
alle chitarre, purtroppo da poco scomparso, affiancandovi una calda coperta di
ottoni. L'intera struttura è infine sostenuta dalle backing vocals di Debra
Jean Creelman e Caroline Ballhorn, eccezionali nel definire i dettagli in ogni
singolo brano. Un plauso va tributato anche al produttore John Raham, che mantiene
fissa l'idea di far emerge la dolcissima malinconia del canto di Frazey Ford,
le sue confessioni profonde, schiacciando il resto della strumentazione e in particolar
modo la sezione fiati, come si trattasse di un tenue colore sullo sfondo. Il gioco
è fatto e il groove irresistibile di September Field,
tra contrappunti di organo e una sottile chitarra funky ci introduce alla delicata
magia dell'album. L'operazione ricorda da vicino altre artiste partite dall'universo
indie folk o più genericamente roots e avvicinatesi con timida riverenza e grande
affetto alla tradizione soul: Cat Power, senza dubbio, o la Tift Merritt di un
lavoro quale Tambourine.
Rispetto alla prima Frazey Ford ha più riguardo
per lo stile, diciamo così, sfruttando i saliscendi della voce in Runnin'
e Three Golden Trees, mentre della seconda
non sposa quell'atteggiamento elettrico e di matrice country rock. Indian Ocean
guarda alle eroine della Ford, per sua stessa ammissione, da Roberta Flack a Ann
Peebles, trovando però la sua strada, il suo ideale di soul music: che
rimane incantevole anche senza graffiare (non è la Stax il punto di riferimento,
per intenderci), cercando semmai sfumature che entrino sotto pelle, avendo presente
l'effetto d'insieme. Solo così ci si lascia trascinare dagli struggimenti di Done,
dalle carezze di You Got Religion e Weather Pattern,
fra un rimpallo continuo di sospiri vocali e fraseggi di chitarre e fiati, dalla
strepitosa, latente tensione che conduce tutto l'andamento di Natural
Law (sfioriamo la perfezione nel cantato tra protagonista e coriste)
fino al crescendo della stessa Indian Ocean,
classica al primo istante: organo e acustica a braccetto nell'introduzione, i
vuoti che piano piano, ma inesorabilmente, si riempiono fino a cullare l'ascolto
con un solo di tromba alla distanza. Musica adorabile in ogni sua dolce curvatura.