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garage sudista di
Fabio Cerbone (28/05/2014)
Abbiamo
fatto la conoscenza di tanti "nuovi sud" nella mappa del rock'n'roll di questi
anni, tutti in qualche modo diretti verso una 'ricostruzione' delle proprie radici,
del proprio senso di appartenenza, utilizzando una diversa, rigenerata consapevolezza.
C'è chi ha abbracciato la canzone country e la grande tradizione dei songwriter
come i Drive-By truckers, chi ha impastato il classic rock e il punk come i Lucero,
chi ha poi ridisegnato il blues del Delta (fratelli Dickinson e dintorni) e il
soul della Stax (Alabama Shakes in prima fila) e chi infine ha spinto sull'acceleratore
del garage, facendo friggere le valvole degli amplificatori. Tra questi ultimi
Lee Bains III and The Glory Files da Birmingham, Alabama hanno occupato un
piccolo posto al sole, grazie alla rivelazione dell'esordio There
Is a Bomb in Gilead, formazione nata sulle ceneri di un altro interessante
e misconosciuto combo dalla comune "sensibilità" elettrica, The Dexateens.
Le
attese perciò sull'uscita di Dereconstructed erano alte, va ammesso,
e la prima sensazione è che, pur mantenendo una spavalderia assoluta e un approccio
giustamente dissacrante verso le proprie ispirazioni musicali, l'album sia anche
una grande occasione sprecata. Lo è innanzi tutto per una serie di incomprensibili
scelte produttive condivise con Tim Kerr, che hanno letteralmente schiacciato
la voce di Lee Bains dentro un muro di suono dove chitarre stridenti e feedback
poderosi nascondono i suoi testi, tra le cose più interessanti lette nel giovane
e ribelle southern rock dai tempi di Ben Nichols (Lucero) e Patterson Hood (DBT).
È un peccato infatti scoprire che buona parte dell'umido swamp blues e delle sfumature
soul-gospel del precedente lavoro siano oggi sommerse da una lava incandescente
di riff e volumi che cercano sempre la saturazione: The
Company Man e la stessa Dereconstructed
annunciano la svolta, con la sei corde di Eric Wallace a crepitare di continuo
e i decibel sempre oltre il limite. L'eccitazione è garantita, non c'è che dire:
Burnpiles, Swimming Holes sembra uscire da una session con Jon Spencer,
The Weeds Downtown paiono i Black Crowes
sotto effetto di acidi, What's Good and Gone e The
Kudzu and the Concrete alzano i vessilli sudisti senza luoghi comuni
e raccontano un'altra possibuilità di approcciare il genere.
Peccato però
che non si capiscano le parole, che ci sia un chiasso infernale (bello, liberatorio,
ci mancherebbe altro... se si sta parlando di rock'n'roll) che tuttavia con un
pizzico di "spontaneità" in meno avrebbe fatto guadagnare senso alla forza simbolica
di queste canzoni. Prendete ad esempio l'anti-inno di Flags!
una lucidissima, spietata fotografia dell'essere uomini del Sud oggi, portando
ancora il peso di una retorica che affonda in un pericoloso orgoglio razzista:
brano potente e carico di significati, che purtroppo naufraga in un convulso garage
punk dove le gradazioni soul della voce di Lee Bains si annullano. È questo uno
dei crucci maggiori dell'intero Dereconstructed, un disco lanciato a rotta di
collo, a suo modo esaltante per questioni di istinto, ma caricato senza una ragione
plausibile. Dal vivo faranno scintille, ma in studio la prossima volta li vorremmo
vedere con le idee più chiare.