Non esistono tante avventure musicali così brevi ma così
varie come quella di Matt Johnson, in arte The The, forse uno dei
primi artisti ad aver usato uno pseudonimo lasciando sempre il dubbio
se parlarne come di un singolo o di un gruppo (pratica divenuta di moda
poi negli anni 2000). Nei suoi 7 album in studio pubblicati in trent’anni
dal 1981 al 2000, Johnson è riuscito a creare avveniristiche opere di
proto-elettronica (Burning Blue Soul), mischiarla con successo
con suoni tradizionali in tempi non sospetti (Soul Mining), rileggerla
in chiave pop-80 (Infected), o in chiave più “Smithsiana” imbarcando
Johnny Marr in formazione (Mind Bomb), fino al botto di Dusk,
che in qualche modo faceva un riassunto perfetto di tutto. Giusto il tempo
di buttarsi anche nel mondo del country rivisto a suo modo (Hanky Panky,
splendido tributo ad Hank Williams) e chiudere il tutto con un album irrisolto,
per quanto forse sottovalutato, come Nakedself, che aveva il grosso
difetto di non avere la stessa direzione precisa dei suoi predecessori.
Da allora Johnson si è chiuso in un isolamento che solo qualche colonna
sonora per b-movies di amici ha interrotto, e per ora ancora non sembra
che la delusione per il flop della sua ultima opera sia stata digerita
del tutto. Poi, nel 2018 la sorpresa di rivederlo dal vivo a risuonare
i vecchi pezzi in alcune serate, con la migliore ora finalmente pubblicata
in questo The Comeback Special: Live at the Royal Albert Hall.
Intanto il titolo che richiama l’omonimo live-record del 1968 di Elvis
Presley (che lo volle per sottolineare che l’era delle soundtracks era
finita anche per lui) credo sia più che significativo, ma al di là delle
egocentriche citazioni, l’operazione è davvero encomiabile per come non
si respiri affatto aria di revival autocelebrativo, semmai di vitalità
artistica. Johnson ha voluto una band di stampo classico alle sue spalle,
formata dal tastierista blues Dc Collard, il batterista jazz Earl Harvin
(già visto in session anche per Joe Henry e Richard Thompson tra i tanti),
il bassista James Eller (già con lui negli anni d’oro), e il sorprendente
chitarrista Barrie Cadogan, leader dei Little Barrie, e consigliatogli
dallo stesso Johnny Marr, che purtroppo non poté partecipare per altri
impegni.
L’imperativo fornito ai musicisti è stato quello di evitare campionamenti
e aggiunte elettroniche che non siano men che realmente suonate, e quello
ancor più coraggioso di riarrangiare tutti i pezzi dandogli nuova linfa
vitale. Gioco che in gran parte riesce, sia perché, sebbene non vastissimo,
il suo resta un songbook invidiabile, sia perché l’album finisce quasi
per suonare come un nuovo progetto da affiancare a quelli vecchi. Magra
consolazione forse, visto che nonostante questa resurrezione, ancora non
si vede del nuovo materiale all’orizzonte, ma accontentiamoci e cogliamo
l’occasione per rientrare nei meandri lirici di pezzi straordinari come
The Beat(en) Generation, Love
Is Stronger Than Death, This Is The Day o nuove azzeccate
riletture come Armageddon Dayd Are Here (again) o Dogs Of Lust.
La band lo segue impeccabilmente e l’atmosfera non perde mai d’intensità,
come si può anche ben vedere nel video del concerto (l’album esce anche
in formato DVD nelle varie edizioni previste, tra cui anche una Deluxe
con tre cd di suoi interventi radiofonici per veri feticisti dell’inedito).
Il repertorio spazia in tutta la sua produzione, compreso il primo album
pubblicato a suo nome (da cui riprende una rigenerata Like A Sun Rising
Thru My Garden e Bugle Boy) e qualche chicca pubblicata in
progetti autoprodotti (A Long Hard Lazy Apprenticeship). Insomma,
quasi un “The Best Of” in diretta che speriamo sia davvero un ritorno
e non una chiusura.