Vogliamo
credere alle coincidenze? Blue & Lonesome sarebbe nato grazie alla
prontezza dell'ingegnere del suono Krish Sharma nell'incidere un'estemporanea
versione "di riscaldamento" del pezzo omonimo di Little Walter, risalente al 1959
e utilizzato dai Rolling Stones per sciogliersi un po' durante le prove
di alcuni brani nuovi. Dalla riuscita e dal feeling di quell'unico adattamento
pare sia nato l'intero progetto, registrato in tre giorni appena presso i British
Grove Studios (situati in quella parte occidentale di Londra dove il gruppo mosse
i suoi primi passi più di mezzo secolo fa) e dedicato appunto alla rivisitazione
del blues elettrico di Chicago e dintorni dal quale i nostri, a inizio carriera,
trassero ispirazione e trucchi interpretativi. Pur verosimile, la ricostruzione
potrebbe essere nient'altro che l'ennesimo piano promozionale architettato intorno
a chi ha costituito, e continua a costituire, "la più grande rock'n'roll band
al mondo", un'impresa commerciale, dal giro d'affari milionario, per la quale,
tutto sommato, lo slogan del ritorno alle origini e della ritrovata purezza può
funzionare piuttosto bene e orientare all'acquisto anche milioni di utenti del
tutto ignari di chi siano stati Leonard Chess e suo fratello Phil (d'altronde,
la conoscenza del retroterra di un'operazione musicale non può essere un requisito
obbligatorio).
Con una controindicazione: quella, cioè, di scontentare
gli estimatori che al discorsetto del rientro alla crudezza blues degli esordi
ci hanno creduto per davvero, trovandosi poi tra le mani un disco dove asprezza,
violenza e visceralità sono invece proscritti o confinati a piccolissimi accenni,
come d'altra parte puntualmente accade dal 1994 dell'ingresso in squadra del produttore
Don Was, sempre ineccepibile nel far sembrare gli Stones più giovani di quanto
non dica la loro anagrafe, ma non certo un propugnatore di suoni sporchi, sgradevoli
o pungenti. Ecco, quindi, Blue & Lonesome ottenere due tipi di riscontro: da un
lato l'approvazione incondizionata degli ammiratori di lungo corso, secondo i
quali le riletture di questi attempati miliardari sarebbero più espressive, e
davvero non si capisce perché, degli originali di un Howlin' Wolf nel pieno dei
suoi appetiti (alimentari e sessuali), e dall'altro il biasimo di chi, sempre
tra i conoscitori, si rammarica di come l'album non suoni con la stessa, scorticata,
primitiva intensità di Jon Spencer Blues Explosion o Chrome Cranks.
Per
quanto mi riguarda, trovo entrambe le posizioni viziate da un difetto di prospettiva
(e, certo, d'amore), perché se l'urgenza originaria, l'eros famelico, il desiderio
represso e l'ossessività di I Can't Quit You Baby,
scritta nel 1956 da Willie Dixon ma portata al successo da Otis Rush, resta irraggiungibile
persino se a riprenderla in mano sono i Led Zeppelin metallici del primo album,
pretendere da musicisti che messi assieme fanno circa 300 anni di età la stessa
energia e la stessa immedesimazione di chi è nato venti o trent'anni dopo è semplicemente
ridicolo. (Digressione. È vero, Jon Spencer ha prodotto un disco, bellissimo,
di RL Burnside, bluesmen di Lafayette noto per il suo gesto sudicio e sgangherato,
ma in quel caso si è limitato a riempire, alla sua maniera, lo spazio ossuto e
convulso rimasto tra le frustate di una chitarra intenta, come quella di Mississippi
Fred McDowell, a reiterare sempre gli stessi giri da mal di testa, ispirati in
egual misura dal blues rurale del paese di nascita e dall'andamento ipnotico e
circolare di quello africano. Fine della digressione.)
E
tuttavia, quello di Blue & Lonesome resta comunque un risultato
straordinario, e non solo perché l'intreccio tra i tamburi mostruosi di Charlie
Watts e il basso di Darryl Jones (diciamolo pure: molto più dotato, in senso tecnico,
del predecessore Bill Wyman) produce una sezione ritmica da paura, allucinante
per come riesce a mettere in circolo le sensazioni e le passioni di una vita fa,
o perché l'armonica di Mick Jagger torna protagonista come non accadeva
dai tempi delle fulminanti versioni live di Midnight Rambler proposte nei '70
(al contrario le chitarre di Keith Richards e Ron Wood sono raramente in primo
piano: il loro dialogo, emotivo, rituale, quasi gospel, serve soprattutto a costruire
una pulsazione costante e affidabile); il suo risultato è straordinario perché
raccoglie l'eredità del passato (non la interpreta, non la stravolge, non le strappa
la pelle di dosso: la raccoglie e basta) facendo i conti, con onestà, sul presente
di chi suona, oggi, e si trova appunto a confrontarsi con quella parte di passato
che non passa.
Blue & Lonesome non vuole reinventare il blues o strapazzarne
i connotati, e proprio per questo non mira a risultare grezzo e senza compromessi.
Il suo obiettivo è quello di dar voce al confronto tra quattro musicisti maturi
e la loro gioventù, rievocata con classe, eleganza e stile, come se quel mondo
antico di canzoni e suggestioni costituisse ancora un'opportunità, e una chiave
di lettura, per interrogare il presente e cascarci in mezzo. Ne è venuto fuori
un disco da vecchi istrioni in ballo per un ultimo valzer, in certi aspetti signorile
come Eric Clapton (sue la slide su Everybody Knows
My Good Thing e l'assolo irreprensibile sull'ultima I Can't Quit
You Baby) o elusivo come JJ Cale, in altri sciamanico e cinematografico (sentite
il sortilegio agreste della Hoo Doo Blues
di Lightnin' Slim, portata in piano sequenza visionario dalle percussioni di Jim
Keltner), in altri ancora gonfio di affetto e nostalgia per le emozioni di una
formazione musicale allora in divenire (è il caso della Little Rain di
Jimmy Reed, in cui Jagger soffia dentro l'armonica tutti i debiti e il rispetto
verso un artista purtroppo dimenticato). Gli Stones di Blue & Lonesome si sentono,
già dal titolo, "tristi e soli", alieni rispetto a un'attualità che non solo non
riescono a replicare, ma nemmeno a digerire con le loro dinamiche di sempre, forse
persino seccati dal copione per cui riff e aggressioni ritmiche debbono sbucare
un po' ovunque, anche solo per poter ascrivere (su Wikipedia) l'ultimo A Bigger
Bang (2005) alle categorie di "hard-rock" (?), "garage-rock" (??) e "punk-blues"
(???).
A questi Stones non occorrono effetti speciali, solo il raccoglimento
necessario per accompagnare, senza una nota di troppo, le schermaglie tra il piano
acustico di Chuck Leavell e il Wurlitzer di Matt Clifford su Ride
'Em On Down (Eddie Taylor). Di conseguenza, il rock-blues di Blue
& Lonesome sgorga sincero, sentito, divertito, classico, anche malizioso
e sexy. Ma soprattutto, com'era probabilmente nelle intenzioni, finalmente normale.
A modo suo, una piccola rivoluzione.