Southside
Johnny & The Asbury Jukes Jukebox
(box 5CD) [Leroy
Records/Blue Harp 2007]
  
Se dico che Johnny Lyon, in arte
Southside Johnny, "non è un prodigio di talento", sto utilizzando una litote;
quella figura retorica, cioè, dove si esprime un parere in modo attenuato, facendo
precedere da una negazione il giudizio opposto. Ora, nessun individuo sano di
mente si mette a scrivere pensando di utilizzare consciamente una litote, un'ipallage
o una catacresi (e in linea di massima, quando accade, i risultati eccedono in
formalismo), eppure mi ha sorpreso constatare come, riferita a Southside Johnny,
la litote assumesse per me, una volta tanto, il significato contrario. Perché
è vero, Southside non è un genio, e del resto le cinque ore e rotte di questo
Jukebox potrebbero fiaccare sensi e pazienza di chiunque già non
coltivi un'indulgenza plenaria nei confronti del personaggio. Eppure, nel corso
degli anni, Southside ha comunque saputo imporsi alla stregua di un grandissimo
mestierante in grado di sopperire all'assenza di portenti con tonnellate di impegno,
calore, divertimento, dedizione alla causa. La causa è quella del rhytm'n'blues
degli anni '50, del soul delle origini, del blues di BB King e Big Joe Turner,
dello swing di Count Basie, di tutta quella musica pungolata da accelerazioni
dei fiati che una combriccola di ragazzi bianchi e squattrinati del New Jersey
avevano amato e inseguito durante la loro giovinezza, all'inizio degli anni '60,
tra le corse a perdifiato sul boardwalk affacciato sull'Oceano Atlantico e l'incombenza
caliginosa e industriale del canale di Newark. La "causa" si trasforma in mestiere
all'indomani degli anni '70, in "storia" vera e propria cinque anni dopo: ed è
da lì, dal 1975 della prima formazione ufficiale degli Asbury Jukes, che
inizia il racconto di Jukebox. Con i Jukes ancora supervisionati
da Miami Steve Van Zandt, contemporaneamente impegnato a rielaborare gli arrangiamenti
dei fiati di Born To Run per l'amico Bruce Springsteen (nella cui band entrerà
in pianta stabile entro pochi mesi), e con un disco d'esordio targato Epic, I
Don't Want To Go Home (1976), che dimostra con quale febbricitante trasporto un
pugno di ragazzotti bianchi possa interpretare il soul di Solomon Burke e Sam
& Dave, il sanguigno blues di Ray Charles e quello più funkeggiante di Lee Dorsey,
il pop luccicoso delle Ronnettes e il doo-wop urbano dei Drifters di Ben E. King.
Il resto è, appunto, storia, la storia di Johnny e dei suoi Jukes, e riguarda
alcuni tra gli album più riusciti degli anni '70 (su tutti Hearts Of Stone del
'78), i tentennamenti della decade successiva, il sorprendente comeback del '91
(quel Better Days che resta tra le sue cose più belle di sempre) e la successiva
definizione di uno stile più livido e bluesato, sempre foriero di lavori mai meno
che eccellenti. Senza ovviamente dimenticare le scorribande sul palcoscenico,
la dimensione tuttora più congeniale ai nostri: a documentare la grandezza on-stage
dei Jukes c'è un live capolavoro come Reach Up And Touch The Sky ('81), ma a ricordare
quale razza di interprete sia Johnny, che voce incredibile si ritrovi e in che
modo sia capace di caricare di pathos e soul persino l'elenco della spesa, c'è
anche il sottovalutatissimo Spittin' Fire ('97), doppio acustico registrato al
Chesterfield Café di Parigi e attraversato da una dolcissima sensazione di malinconia.
Ogni capitolo della storia viene passato in rassegna da Jukebox
senza nulla trascurare. Ci sono l'errebì romantico e proletario degli esordi e
alcune canzoni francamente orrende e indifendibili degli anni '80 (ancora oggi
il big drum sound sintetico di Lorraine o I Should Have Said I Love
You è duro da digerire), c'è il torrido rock-blues degli ultimi tempi e c'è
qualche parentesi "stripped" da grande cantautore (ascoltate il demo del '79 di
Paris, o la commossa, stupefacente rilettura del Tom Waits di Heart
Of Saturday Night), ci sono le fiammate rock'n'roll dei Jukes (per esempio
la devastante Talk To Me newyorchese del 1981) e le solite, imprescindibili
meraviglie prese in presto agli altrui cataloghi (oppure direttamente regalate
alla band): il blue-collar rock a perdifiato di Miami Steve (Take It Inside),
l'immortale omaggio di Springsteen al soul metropolitano di Martha Reeves (The
Fever), palate di classici (The Dark End Of The Street, Walk Away
Renee, Under The Boardwalk, Train Kept A-Rollin'), David Bowie
(Rebel Rebel), Alejandro Escovedo (Tired Skin) e un'incredibile
Van Morrison (Into The Mystic). C'è il mestiere inappuntabile dei Jukes,
una band che resta un'enciclopedia vivente del rock'n'roll e che ora, grazie all'ingresso
nel 1985 del chitarrista Bobby Bandiera in luogo del dimissionario Billy
Rush (songwriter migliore, forse, ma sei corde di manifesta pochezza), ha trovato
il bilanciamento perfetto tra spirito filologico e scariche torrenziali di "party-music",
tra il gigioneggiare al trombone di Richie "La Bamba" Rosenberg e lo stantuffo
ritmico inarrestabile della sezione ritmica di Joe Bellia (tamburi) e Muddy
Shews (basso).
Cinque stelle a Jukebox, quindi, nonostante il suo
esplicito predicare ai convertiti e l'incontrovertibile affermazione del fatto
che ben difficilmente il nome di Southside potrà mai essere ascritto alla massima
divisione dei classici rock? Assolutamente sì, signore e signori, perché questo
è l'esempio più probante di come un box riepilogativo dovrebbe essere pensato
e poi costruito: 70 canzoni inedite, mai ascoltate nella versione qui inclusa,
che è sempre demo (ma di ottima qualità sonora) o live o alternata, un booklet
stracolmo di informazioni e memorabilia (nonché impreziosito da una timeline di
ammirevole precisione), persino un disco dal vivo (con i Jukes che, il 3 marzo
del 2001, si impegnano a fondo per far crollare i muri dell'Holiday Inn di Tinton
Falls, NJ) allegato in veste di gradito cadeaux. Questo è il modo di fare le cose,
rispettoso dei fans e della loro sollecitudine economica, e non è un caso che
per riuscirci Southside, da qualche anno, si sia messo a vendere i propri album
direttamente in rete. Jukebox lo trovate anche altrove, ma comprarlo da lui rimane
la soluzione più economica. I neofiti, neanche da dire, lascino perdere. Gli estimatori
accorrano, perché rinverrano tra i 5 cd del cofanetto l'ennesima, sempre gradita
dimostrazione della vitalità dell'Asbury-sound.
La prima traccia dell'intero
box è un piccolo discorso del Southside di oggi, che dice di aver iniziato a far
musica nella speranza di trasmettere agli altri un pizzico della passione che
sentiva accendersi dentro di lui durante i concerti di quei musicisti che suonavano
"until they dropped dead on stage" (finché non crollavano sul palco), una dichiarazione
d'intenti che al tempo stesso è una dichiarazione di umiltà e onestà. Per quanto
mi riguarda non posso fare a meno di riservargli altrettanto amore e altrettanto
rispetto. (Gianfranco Callieri) www.southsidejohnny.com
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