Nel
1983, non pago del successo ottenuto alla guida di un altro gruppo chiamato Jo
Jo Zep & The Falcons, l'inarrestabile cantante, sassofonista e compositore
Joe Camilleri radunò qualche amico e qualche collega per tenersi impegnato
con un'altra formazione. Nacquero così i Black Sorrows, in pochi anni diventati,
grazie a un prestigioso contratto con la CBS/Sony, a una buona programmazione
radiofonica e all'interessamento di un estimatore speciale di nome Elvis Costello,
non solo l'occupazione principale di Camilleri e dei suoi musicisti, ma una piccola
istituzione della musica australiana. Perennemente in tour, i Sorrows hanno visto
innumerevoli modifiche in seno al proprio organico, con Camilleri unico membro
fisso, e concerto dopo concerto, disco dopo disco (alcuni, pubblicati anche in
Europa, di enorme successo), il loro titolare, nel 2007, è stato ricevuto con
tutti gli onori nel pantheon dell'industria discografica degli antipodi, in pratica
il corrispettivo aussie dell'americana R'n'R Hall Of Fame.
Niente male
per un gruppo nato con l'idea di rileggere qualche classico di area blues, soul,
zydeco e r&b, in omaggio allo sconfinato amore nutrito da Camilleri per i linguaggi
neri e meridionali della musica tradizionale a stelle e strisce: d'altronde, che
i Black Sorrows fossero qualcosa in più di un semplice divertissement lo si poteva
intuire già dagli (ottimi) album realizzati dai nostri tra la seconda metà degli
Ottanta, dopo i quasi autoprodotti Sonola (1984) e Rockin' Zydeco (1985), e le
prime stagioni del decennio successivo, quando i nostri, grazie a una stringa
di album contrassegnati da un gran lavoro su country e ballate, scossoni rootsy
e romanticismo elettrico, seppero alimentare con gusto, passione e personalità
la fiammella del classic-rock, allora agonizzante nei suoni più brutti e artificiosi
della storia della musica popolare. Uno dietro l'altro, A Place In The World (1985),
il rhythm'n'blues sanguigno di Hold On To Me (1988) e, più di tutti, l'apoteosi
tra rock and roll e gospel del formidabile Harley & Rose (1990) - il loro disco
migliore - seppero unire un revival sempre molto convinto di garage, beat, riff
contagiosi e melodie confezionate con estrema cura il senso dello spazio e delle
grandi frontiere tipico della scrittura di Camilleri, non alieno a scampoli di
jazz e assai versato nel firmare inni solenni e ricchi di umanità, ogni volta
contraddistinti da un amore sconfinato per le storie minime del vecchio rock,
i suoi protagonisti, i suoi album di riferimento.
Amore non sufficiente,
tuttavia, a sostanziare per intero una produzione fattasi, negli anni, a dir poco
mastodontica, e riflessa in una discografia sfuggente, camaleontica e purtroppo
faticosa a digerirsi per intero. Per dire di quali controindicazioni possa generare
l'eccesso di prolificità, questo Endless Sleep esce in patria su
due vinili targati Head Records, intitolati Endless Sleep (Chapter 46) e Endless
Sleep (Chapter 47), con le due specifiche numeriche a ricordare quante opere (troppe)
abbia dato alle stampe Camilleri in quasi quarant'anni di carriera (la sua prima
incisione professionale risalirebbe infatti al 1975). I due dischi comprendono
un totale di 20 riletture dai repertori di svariati colleghi, mentre in Europa,
dove per reperire i suddetti 33 giri occorre perlomeno disfarsi d'un rene, il
distributore Rootsy ha approntato un'edizione in doppio CD, ribattezzata Endless
Sleep XL: nel primo disco trovate l'abbinata dei due Endless Sleep, ridotta
però a 14 brani per ragioni di spazio, e nel secondo - One More Time
- una raccolta di vecchi pezzi, alcuni risuonati per l'occasione e altri in versione
originale, dall'altalenante carriera dei nostri. Rompicapi discografici a parte,
i Black Sorrows di Endless Sleep confermano all'incirca tutti i loro difetti e
le loro virtù: se alla voce dei primi dobbiamo ascrivere un'inveterata tendenza
a ridurre la brutalità e l'istinto animalesco di alcuni colleghi (Beasts Of Bourbon
su tutti) nell'ambito di un classic-rock tanto sincero e sentito quanto, tutto
sommato, inoffensivo, tra le seconde va altresì catalogata la mai ambigua onestà
intellettuale con cui il gruppo, in tutti questi anni, ha in fondo cercato di
dare voce, corpo e suoni alle (numerose) passioni musicali del suo capofila.
Il
quale, stavolta, si lascia prendere un po' la mano, scegliendo di cimentarsi addirittura
con un mostro sacro dello spessore John Coltrane (in una Lonnie's Lament
a dir poco anonima) o con artisti talmente iconici - Lou Reed (Dirty
Blvd.), Warren Zevon (Excitable Boy), Hank Williams (I'm
So Lonesome I Could Cry), Gil Scott-Heron (Better Days Ahead)
- da sconsigliarne la parafrasi, soprattutto se questa, come accade nel caso in
esame, viene eseguita in modo alquanto semplicistico. Sembrano invece meglio riuscite
la trasposizione rockinrollista di un morbido blues di JJ Cale (Devil
In Disguise) o l'affettuosa dedica a Willy DeVille, omaggiato da una
Storybook Love piena di sentimento, ma se
il programma fosse tutto qui, sarebbe comunque arduo consigliare al neofita, o
all'estimatore di vecchia data, questi Black Sorrows in apparenza tornati alla
dimensione quasi amatoriale degli esordi e di certo sprovvisti di quei guizzi
caustici, fisici e graffianti che gli avevano consentito l'evidente salto di qualità
di certi titoli del passato.
La storia si fa tuttavia più interessante
grazie all'antologico One More Time, dove chi non conoscesse nulla della storia
del gruppo potrà recuperare piccole meraviglie in forma di tributo a Van Morrison
(la struggente Chosen Ones, Ain't Love
The Strangest Thing), qualche intersezione tra pop e rock influenzata da Tom
Petty (Lover's Story, Hold On To Me),
discreti esemplari di folk-rock in salsa aussie (A Fool
And The Moon, Lucky Charm) e qualche deliziosa ballata elettroacustica
(su tutte Dear Children, in cui di nuovo si
affaccia il fantasma bucolico del cowboy di Belfast). La scrittura di Camilleri,
al contrario degli incisi strumentali (difficile rimproverargli qualcosa da questo
punto di vista), non sempre si dimostra capace di trattare i materiali derivanti
dalle sue fonti d'ispirazione, ogni volta vissute da fan all'ultimo stadio, ricomponendoli
nella giusta misura di entusiasmo e mestiere, partecipazione e scaltrezze. Il
rischio della retorica populista, o del già sentito, è dietro l'angolo a ogni
canzone: One More Time, nondimeno, ha dalla sua una linearità espressiva di rara
piacevolezza, e anche questo, alla fine, conta qualcosa.