Tom Russell
The Rose Of Roscrae: A Ballad Of The West

[Frontera/ Proper 2015]

www.tomrussell.com

File Under: Cowboys on Broadway

di Gianfranco Callieri (16/04/2015)

Per quanta stima (parecchia) chi vi scrive possa nutrire nei confronti di Tom Russell, californiano da anni trapiantato in Texas, tra i pochissimi, negli ultimi decenni, a saper aggiornare la tradizione del country & western e della canzone d'autore "narrativa" senza cristallizzarla in logori stereotipi ma, anzi, rendendola un contenitore aperto dove mescolare centinaia di suggestioni diverse (un po' come ha fatto James Ellroy, in letteratura, contaminando le ambientazioni del canone hard-boiled americano con la storia e la dietrologia nazionale), dopo ripetuti ascolti del suo nuovo lavoro, la cui metabolizzazione integrale richiede due ore e mezzo di attenzione da replicarsi ad libitum, mi pare difficile non dichiararlo, se non schiacciato, perlomeno appannato dal peso della sua stessa ambizione.

All'indomani del peraltro ottimo The Man From God Knows Where (1999), lunga e sofferta meditazione sul retaggio europeo della propria famiglia (proveniente dalla Norvegia in cui il disco venne registrato) e sulla dolorosa emigrazione di questa in un altro continente, è accaduto che più di un recensore abbia detto a Russell di essere un genio: lui ci ha creduto, e fin qui poco male, perché lo è, ma i suoi dischi sono diventati sempre più temerari e grandiosi nelle aspirazioni, sempre più lunghi e verbosi (solo l'ultimo Mesabi durava lo sproposito di un'ora e rotti), agghindati da ricerca antropologica anziché da produzione discografica o, al limite, da maratona romanzesca. Certo, in un'epoca di obiettivi rachitici, idee striminzite e cornici sonore talmente gracili da rasentare l'inconsistenza, leggere nell'iperprolificità e nei sontuosi affreschi storici di Russell un problema di bulimia percettiva può sembrare pretestuoso, anche perché il nostro non ha mai davvero sbagliato un disco (il Blood And Candle Smoke registrato nel 2009 coi Calexico, per dirne uno, era un mezzo capolavoro) e, sebbene abbia un po' esagerato con antologie, ristampe e collezioni "tematiche", ha saputo convincere persino negli accostamenti più improbabili (si ascolti, a riguardo, Aztec Jazz, live con l'accompagnamento di un intero ensemble di fiati).

Tuttavia, in un certo senso, The Rose Of Roscrae, ennesimo capitolo di una carriera dalle tappe ormai difficili da calcolare (siamo più o meno arrivati all'opera numero 25), è anche lo specchio di un tempo in cui i "curatori" di un testo o di un disco non esistono più e la tendenza generale sembra quella di pubblicare tutto, senza ricorrere in nessun caso a filtri, mediazioni, scremature. Diviso in due "atti", corrispondenti a due CD, l'album racconta la storia di Johnny Behind-The-Deuce, giovane arrabbiato, all'occorrenza anche fuorilegge, scappato dalla città natale di Templemore, in Irlanda, dopo essere stato picchiato a sangue dal padre della ragazza - la "rose of Roscrae" del titolo - con cui aveva una relazione. Oggi ottantacinquenne, Johnny ripensa al passato e alle continue svolte della sua vita (protagonista delle canzoni del primo CD, il migliore dei due), all'amore perduto e sempre inseguito (invece prim'attrice, nell'interpretazione canora di Maura O'Connell, della trattazione del secondo disco, più frammentario e complesso), alla possibilità di un ritorno in patria, in un'evocazione di luoghi, circostanze e persone dove la cronaca del crepuscolo della frontiera, appunto ritratta nei toni senza misericordia di un libro noir, e della colonizzazione dell'Ovest s'intreccia al travaglio delle persone comuni, facendo rivivere in modo assolutamente brillante la grande Storia nelle storie minime dei singoli personaggi.

Dato atto a Russell di un'indubbia efficacia nel restituire il sapore di un'epoca in chiave originale, al di là di ogni malandato cliché (categoria nella quale, a essere onesti, ricade soltanto Augie Blood, il giudice corrotto, disgraziato e rancoroso affidato alla voce di David Olney), sia quando racconta di vecchi trapper costretti a separarsi dai propri cavalli per non scatenare le ire degli indiani sia quando paragona (con indiscutibile acume) la brutalità senza alcuna enfasi o romanticismo degli outlaw di fine '800 alla ferocia degli attuali narcos messicani (tutti e due protagonisti di specifici generi musicali); riconosciuti quindi i meriti di un approfondito lavoro di documentazione storica da cui si dipanano, come nella migliore tradizione del romanzo narrativo, elementi benissimo congegnati d'invenzione artistica, non si può non sottolineare quanto ci sia, di superfluo, ininfluente o comunque confusionario, nelle 52 tracce che compongono l'album. Capita, infatti, che in mezzo ai vecchi brani di Russell rivisitati per l'occasione (Gallo Del Cielo da Joe Ely, The Sky Above, The Mud Below, nemmeno accreditata nei titoli, da Ramblin' Jack Elliott), orazioni radiofoniche di Walt Whitman, fulminee apparizioni di classici country del passato, svisate gospel con Eliza Gilkyson o Augie Meyers davanti al microfono, ballate francofone di due secoli fa (En Canadien Errant), nuove installazioni di veri e propri pilastri della canzone d'autore texana (nel West Texas Montage del secondo disco, per esempio, Jimmie Dale Gilmore intona Red River Valley, mentre Guy Clark, e subito dopo Dan Penn, propongono frammenti dell'inarrivabile Desperados Waiting For A Train del primo), in questo programmatico raccogliere citazioni, spunti, collegamenti, rimandi e così via, a soffrirne di più siano proprio i pezzi nuovi del titolare, quasi soffocati dalla mole di intermezzi parlati e dal numero esagerato di ospiti e comparsate (il duetto di Jimmy LaFave e Gretchen Peters sulla Ain't No More Cane On The Brazos talvolta attribuita a Leadbelly è una grande pagina di folk sentimentale e polveroso, ma nel contesto, cosa aggiunga o a cosa serva non è chiaro).

Un peccato, perché Hair Trigger Heart, He Wasn't A Bad Kid, When He Was Sober o Doin' Hard Time In Texas sono alcune tra le migliori canzoni mai composte da Russell, qui in grado di recuperare l'impatto forte e rockista di certi sui lavori del passato (penso a Poor Man's Dream [1989] o Hurricane Season [1991]) senza per questo rinunciare a un grammo dell'incisività rootsy acquisita negli ultimi anni. La title-track poi, le cui note ricorrono in forme diverse per tutta l'opera, è uno dei suoi capolavori di sempre, una maestosa ballata elettrica dove spirito delle radici e storytelling coinvolgente raggiungono un nuovo apice di intensità, commozione e statura epica. La conclusione, la stessa peraltro formulabile per un esperimento affine come Ghost Brothers Of Darkland County (John Mellencamp), è scontata ma inesorabile: The Rose Of Roscrae è un grandissimo album in potenza, al quale, per essere tale, è mancata una minima gestione dei contenuti. Lo si sarebbe potuto salutare come un esempio di inattaccabile intelligenza artistica e lucidità storica, di energia fantasmagorica e anche kitsch, ma per fortuna espressiva e vivida, se solo le sue effigi di disfatta e disillusione avessero beneficiato di qualche sforbiciata. Così com'è, invece, lo si osserva, e lo si ascolta, con una certa ammirazione. Eppure, purtroppo, senza una sola scintilla di vero amore.


     


<Credits>