Per
quanta stima (parecchia) chi vi scrive possa nutrire nei confronti di Tom Russell,
californiano da anni trapiantato in Texas, tra i pochissimi, negli ultimi decenni,
a saper aggiornare la tradizione del country & western e della canzone d'autore
"narrativa" senza cristallizzarla in logori stereotipi ma, anzi, rendendola un
contenitore aperto dove mescolare centinaia di suggestioni diverse (un po' come
ha fatto James Ellroy, in letteratura, contaminando le ambientazioni del canone
hard-boiled americano con la storia e la dietrologia nazionale), dopo ripetuti
ascolti del suo nuovo lavoro, la cui metabolizzazione integrale richiede due ore
e mezzo di attenzione da replicarsi ad libitum, mi pare difficile non dichiararlo,
se non schiacciato, perlomeno appannato dal peso della sua stessa ambizione.
All'indomani
del peraltro ottimo The Man From God Knows Where (1999), lunga e sofferta
meditazione sul retaggio europeo della propria famiglia (proveniente dalla Norvegia
in cui il disco venne registrato) e sulla dolorosa emigrazione di questa in un
altro continente, è accaduto che più di un recensore abbia detto a Russell di
essere un genio: lui ci ha creduto, e fin qui poco male, perché lo è, ma i suoi
dischi sono diventati sempre più temerari e grandiosi nelle aspirazioni, sempre
più lunghi e verbosi (solo l'ultimo Mesabi
durava lo sproposito di un'ora e rotti), agghindati da ricerca antropologica anziché
da produzione discografica o, al limite, da maratona romanzesca. Certo, in un'epoca
di obiettivi rachitici, idee striminzite e cornici sonore talmente gracili da
rasentare l'inconsistenza, leggere nell'iperprolificità e nei sontuosi affreschi
storici di Russell un problema di bulimia percettiva può sembrare pretestuoso,
anche perché il nostro non ha mai davvero sbagliato un disco (il Blood
And Candle Smoke registrato nel 2009 coi Calexico, per dirne uno,
era un mezzo capolavoro) e, sebbene abbia un po' esagerato con antologie, ristampe
e collezioni "tematiche", ha saputo convincere persino negli accostamenti più
improbabili (si ascolti, a riguardo, Aztec
Jazz, live con l'accompagnamento di un intero ensemble di fiati).
Tuttavia, in un certo senso, The Rose Of Roscrae, ennesimo
capitolo di una carriera dalle tappe ormai difficili da calcolare (siamo più o
meno arrivati all'opera numero 25), è anche lo specchio di un tempo in cui i "curatori"
di un testo o di un disco non esistono più e la tendenza generale sembra quella
di pubblicare tutto, senza ricorrere in nessun caso a filtri, mediazioni, scremature.
Diviso in due "atti", corrispondenti a due CD, l'album racconta la storia di Johnny
Behind-The-Deuce, giovane arrabbiato, all'occorrenza anche fuorilegge, scappato
dalla città natale di Templemore, in Irlanda, dopo essere stato picchiato a sangue
dal padre della ragazza - la "rose of Roscrae" del titolo - con cui aveva una
relazione. Oggi ottantacinquenne, Johnny ripensa al passato e alle continue svolte
della sua vita (protagonista delle canzoni del primo CD, il migliore dei due),
all'amore perduto e sempre inseguito (invece prim'attrice, nell'interpretazione
canora di Maura O'Connell, della trattazione del secondo disco, più frammentario
e complesso), alla possibilità di un ritorno in patria, in un'evocazione di luoghi,
circostanze e persone dove la cronaca del crepuscolo della frontiera, appunto
ritratta nei toni senza misericordia di un libro noir, e della colonizzazione
dell'Ovest s'intreccia al travaglio delle persone comuni, facendo rivivere in
modo assolutamente brillante la grande Storia nelle storie minime dei singoli
personaggi.
Dato atto a Russell di un'indubbia efficacia nel restituire
il sapore di un'epoca in chiave originale, al di là di ogni malandato cliché (categoria
nella quale, a essere onesti, ricade soltanto Augie Blood, il giudice corrotto,
disgraziato e rancoroso affidato alla voce di David Olney), sia quando racconta
di vecchi trapper costretti a separarsi dai propri cavalli per non scatenare le
ire degli indiani sia quando paragona (con indiscutibile acume) la brutalità senza
alcuna enfasi o romanticismo degli outlaw di fine '800 alla ferocia degli attuali
narcos messicani (tutti e due protagonisti di specifici generi musicali); riconosciuti
quindi i meriti di un approfondito lavoro di documentazione storica da cui si
dipanano, come nella migliore tradizione del romanzo narrativo, elementi benissimo
congegnati d'invenzione artistica, non si può non sottolineare quanto ci sia,
di superfluo, ininfluente o comunque confusionario, nelle 52 tracce che compongono
l'album. Capita, infatti, che in mezzo ai vecchi brani di Russell rivisitati per
l'occasione (Gallo Del Cielo da Joe Ely, The
Sky Above, The Mud Below, nemmeno accreditata nei titoli, da Ramblin' Jack
Elliott), orazioni radiofoniche di Walt Whitman, fulminee apparizioni di classici
country del passato, svisate gospel con Eliza Gilkyson o Augie Meyers davanti
al microfono, ballate francofone di due secoli fa (En Canadien Errant),
nuove installazioni di veri e propri pilastri della canzone d'autore texana (nel
West Texas Montage del secondo disco, per esempio, Jimmie Dale Gilmore
intona Red River Valley, mentre Guy Clark,
e subito dopo Dan Penn, propongono frammenti dell'inarrivabile Desperados Waiting
For A Train del primo), in questo programmatico raccogliere citazioni, spunti,
collegamenti, rimandi e così via, a soffrirne di più siano proprio i pezzi nuovi
del titolare, quasi soffocati dalla mole di intermezzi parlati e dal numero esagerato
di ospiti e comparsate (il duetto di Jimmy LaFave e Gretchen Peters sulla
Ain't No More Cane On The Brazos talvolta
attribuita a Leadbelly è una grande pagina di folk sentimentale e polveroso, ma
nel contesto, cosa aggiunga o a cosa serva non è chiaro).
Un peccato,
perché Hair Trigger Heart, He Wasn't A
Bad Kid, When He Was Sober o Doin' Hard Time
In Texas sono alcune tra le migliori canzoni mai composte da Russell,
qui in grado di recuperare l'impatto forte e rockista di certi sui lavori del
passato (penso a Poor Man's Dream [1989] o Hurricane Season [1991]) senza per
questo rinunciare a un grammo dell'incisività rootsy acquisita negli ultimi anni.
La title-track poi, le cui note ricorrono in forme diverse per tutta l'opera,
è uno dei suoi capolavori di sempre, una maestosa ballata elettrica dove spirito
delle radici e storytelling coinvolgente raggiungono un nuovo apice di intensità,
commozione e statura epica. La conclusione, la stessa peraltro formulabile per
un esperimento affine come Ghost Brothers Of Darkland County (John Mellencamp),
è scontata ma inesorabile: The Rose Of Roscrae è un grandissimo
album in potenza, al quale, per essere tale, è mancata una minima gestione dei
contenuti. Lo si sarebbe potuto salutare come un esempio di inattaccabile intelligenza
artistica e lucidità storica, di energia fantasmagorica e anche kitsch, ma per
fortuna espressiva e vivida, se solo le sue effigi di disfatta e disillusione
avessero beneficiato di qualche sforbiciata. Così com'è, invece, lo si osserva,
e lo si ascolta, con una certa ammirazione. Eppure, purtroppo, senza una sola
scintilla di vero amore.