:: Neil Young   "No wonder"
 
L'approccio più diretto, e forse anche più scontato, per avvicinarsi a Prairie Wind è di considerarlo una tappa di quell'ideale percorso acustico che accompagna di tanto in tanto la produzione di Neil Young (da più parti si cita la regola dei sette anni che distanziano uno dall'altro tali lavori, qui tuttavia non rispettata). Un disco che contiene certamente molti attraenti richiami al country folk pastorale inaugurato una vita fa con il million seller Harvest, riallacciandosi ad un linguaggio familiare per il loner canadese, eppure un'opera un po' anomala nel contesto, perché liricamente segnata dal trascorrere del tempo. È infatti un Neil Young al crepuscolo quello che sembra parlarci da queste ballate, un artista che alla proverbiale stizza, al quel costante vigilare sulla ruggine in agguato, sostituisce un atteggiamneto contemplativo, nostalgico. Non è la prima volta che accade, è una corda del suo sentire che ha svelato in più occasioni, ma all'indomani dei gravi problemi di salute che lo hanno afflitto (un aneurisma cerebrale nella primavera di quest'anno) e della scomparsa del padre, Young pare una volta per tutte scendere a patti con l'età che avanza. Si mette a nudo con la provebiale fragilità che gli riconosciamo, lasciando sul terreno però un senso di rassegnazione che non gli conoscevamo, riflesso in ballate che non saranno capolavori, ma hanno dalla loro parte una indiscutibile sincerità. Prairie Wind non è musicalmente un disco che rientra nella top ten ideale della sua discografia, ne tanto meno sembra essere guidato dal sacro fuoco che spesso ha ispirato le sue migliori produzioni, ma suona se non altro autentico nel dichiarare la propria debolezza
(Fabio Cerbone)

Neil Young - Prairie Wind Reprise 2005
 

Un riff di chitarra acustica, una steel che disegna armonie nell'aria e si riparte: Neil Young è tornato, lasciando (momentaneamente…) nella stalla il Cavallo Pazzo per correre di nuovo, solitario. Praire Wind ci si presenta così: profumi di spazi aperti, l'erba calpestata delle immense praterie del suo Canada, tornando a farci respirare emozioni che si facevano attendere oramai da troppi anni. Dopo un periodo segnato da diverse sventure (sul piano familiare la morte di suo padre e su quello personale una delicatissima operazione per la rimozione di un aneurisma cerebrale), Neil con l'aiuto di alcuni vecchi amici come Spooner Oldham (piano, organo B3 e Wurlitzer), Ben Keith (dobro, pedal steel e slde guitars), Rick Rosas (basso), Karl Himmel e Chuck Cromwell (batteria), Emmylou Harris ai cori - ed aggiungendo in alcuni brani una poderosa sezione fiati per colorare con sonorità, per lui un po' inconsuete in questo tipo di dischi, alcune canzoni - ci offre un album che si colloca nella scia dei grandi dischi acustici che ha disseminato nel corso della sua carriera, con cui svela pagine intime della sua vita, ricordi personali, dandogli un'immediatezza che si estrinseca alla perfezione negli arrangiamenti country che ha cucito addosso a questi pezzi. Fra questi ce ne sono diversi che rispolverano in un attimo la magia che il vecchio Canadese ha già molte volte creato: l'introduttiva The Painter, Falling Off The Face Of The Earth, Here For You, gemme acustiche scintillanti di armoniche e steel guitars; It's A Dream, ballad pianistica impreziosita da un'orchestra d'archi; No Wonder, piccolo capolavoro di amalgama fra sonorità acustiche ed elettriche con la dolce voce di Emmylou. Far From Home e He Was The King (dedicata ad Elvis) sfruttano la spinta dei fiati mentre This Old Guitar ricalca un po' troppo musicalmente Harvest Moon, lasciandoci ahimè la sensazione di un qualcosa di rimasticato. When God Made Me, un'altra ballata pianistica sinceramente più nella media (ma stiamo parlando sempre di canzoni di Neil Young), chiude un disco che si esprime comunque ad ottmi livelli e ci ha restituito un compagno che speriamo continui ancora a farci sognare il più a lungo possibile con le sue canzoni.
(Gabriele Buvoli)

www.neilyoung.com



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