Dietro Live At Orangefield c’è una serie
di scadenze temporali e anniversari che si allungano nel tempo, e bisogna
fare un po’ di ordine. A dominare è il ricordo del primo concerto tenuto
a scuola nel Natale del 1959, un altro secolo, un’altra vita. È un ritorno
a casa, e un salto carpiato nei decenni quando Van Morrison seguiva
l’istinto musicale in un gruppo studentesco di skiffle. Una passione,
come si sa, mai dimenticata. Nel 2014 si ripresenta sullo stesso palco
di Orangefield, a Belfast, e di conseguenza, lo show è qualcosa di speciale,
viste le circostanze: tutto lo spettacolo è un omaggio alle sue radici,
alle origini della scoperta della musica, al rincorrere delle storie,
con un senso di stupore ancora tutto intatto, e con una disposizione al
canto, e all’interpretazione delle canzoni, quasi ossequiosa nei confronti
dei nomi evocati, impliciti o espliciti che siano.
Dieci anni dopo, eccoci qui, e si giocano carte importanti che solo un
fuoriclasse come Van Morrison può permettersi. La sequenza ha senso rivederla
nel suo corretto svolgimento. L’introduzione di Celtic
Excavation è il timbro sull’ideale passaporto della repubblica
di Van Morrison e funziona come prologo a Into The Mystic che poi
contiene un estratto di Be-Bop A Lula, e l’infanzia, il passato,
Belfast e la musica vengono condensati in quella parola, “peace” alla
fine quasi sussurrata, con una forza tutta sua. Per cominciare un concerto,
a casa, non c’era modo migliore. Soprattutto se poi arriva una sfavillante
Cleaning Windows con la spruzzata
di un groove molto New Orleans e l’intercalare di Van Morrison che elenca,
tra gli altri, Jimmie Rodgers, Sonny Terry & Brownie McGee e Jack Kerouac,
un nome che ritornerà spesso nel corso del concerto.
L’arte della citazione viene sfoderata anche nella grande versione di
Moondance che, alla fine di un pazzesco
assolo di sassofono, serve, per gradire, il richiamo di So What
di Miles Davis, roba di gran classe. Non è da meno comunque la sfumatura
ritmica di Precious Time, che prende la cadenza di The Lion
Sleeps Tonight ovvero Mbube e/o Wimoweh e anche quella
è una nota a piè di pagina rilevante, perché la vicenda della canzone
è incredibile e vale la pensa riscoprirla in Rock, pop, jazz & altro.
Scritti sulla musica, a cura di Nick Hornby. Lo snodo centrale passa
da That’s Life, un grande riconoscimento
a Frank Sinatra che, piaccia o meno, quando si tratta di cantare resta
un faro inamovibile, e poi Got To Go Back che rispecchia la logica
stringente dei concerti di Orangefield.
La disinvoltura con cui si balza da un tema all’altro
è quella di un grande entertainer coadiuvato da una band superlativa che
comprende, oltre a Van Morrison (voce, sax, chitarra elettrica e acustica,
armonica, pianoforte), Paul Moran (piano, organo, tromba), Dave Keary (chitarra
elettrica e acustica), Paul Moore (basso), Bobby Ruggiero (batteria), Alistair
White (trombone), Chris White (sax tenore e baritono, clarinetto, flauto), Dana
Masters e Jolene O ‘Hara ai cori. Queste ultime, grandi voci, sono le
protagoniste della coda di Real Real Gone che sfocia in Send
Me di Sam Cooke, un omaggio spettacolare, compreso il precisissimo
finale. Applausi.
All’interno di tutte queste riletture trova spazio anche il Van Morrison
di annate più o meno recenti, quello di Enlightenment, di Orangefield
(da Avalon Sunset) di Too Many Myths, con un tuffo blues
di tutto rispetto e di The Healing Time da cui sono tratte una
grande Rough God Goes Riding e Sometimes
We Cry, un vero capolavoro soul. Un altro raccordo significativo è
Northern Muse (Solid Ground) dove la nostalgia come valore di un
“terreno solido” e un nuovo richiamo alle fondamenta celtiche conducono
verso la parte conclusiva e più intensa: il talking di On
Hyndford Street recita i nomi di Jelly Roll Morton e Big Bill
Broonzy, nei giorni prima del rock’n’roll, quando è successo tutto, e
ancora Jack Kerouac, e grazie a Van Morrison per averlo ricordato così
spesso. Detto questo On Hyndford Street è un momento unico, prima
del gran finale di Ballerina e soprattutto di In
The Garden, con quel refrain, “no guru, no method, no teacher”,
ripetuto all’infinito e peccato soltanto per la sfumatura, ma in qualche
modo si doveva pur concludere.
Tra riferimenti sottintesi o dichiarati, Live At Orangefield
è uno splendido concerto, una bella pagina del diario di Van Morrison
e, come direbbe Jack Kerouac, “una grande e folle leggenda che comprende
ogni cosa senza iniziare e senza finire”. Sì, la definizione è eccessiva
(e ci mancherebbe altro), ma rende l’idea della meraviglia che scorre
qui dentro.