Los Lobos - "MexicoAmericani"

Finalmente Hollywood ha scoperto la cultura ispano-americana, e persino il governo degli Stati Uniti adesso va a cercare i voti nel Barrio, e anche i sondaggi dicono che tra un secolo (un tempo normale per la storia) gli ispano-americani saranno di più degli yankee. Chi segue il rock'n'roll da tempo conosce la situazione, se non altro perché l'ha sentita raccontare direttamente dalla voce, dalle canzoni, dai suoni dei Los Lobos, che non sono un gruppo qualsiasi. In effetti, già Jim Cullen gli aveva dedicato un intero capitolo in The art of democracy, usandoli come esempio di una convivenza riuscita e di una multiculturalità raggiunta. A maggior ragione dopo Good Morning Atzlan, un disco sorprendente che li conferma creativi, attenti, poliedrici e passionali anche dopo vent'anni di carriera. Anni importanti, che hanno visto i Los Lobos diventare l'epicentro di una complessa serie di ramificazioni culturali e di una ricerca musicale continua che non ha eguali: Latin Playboys, Hound Dog, Los Super Seven sono soltanto alcuni dei progetti che hanno distinto l'evoluzione dei Los Lobos, capaci di interpretare la ricettività di un mondo di frontiera. Il loro, che arrivano dal barrio di Los Angeles, americani che cantano spagnolo, messicani che parlano americano, in un quadro tutto particolare della mitologia del melting pot. Funziona, mas y mas. Più che mai.
(Marco Denti)


Los Lobos - Good Morning Aztlan Mammoth 2003
 

I lupi del Barrio sono di nuovo fra noi. I Los Lobos sono da sempre la band che ha preso per prima la musica di matrice latina ed è stata in grado di mescolarla con il rock ed il blues più tradizionale ma sono anche la stessa band che con Kiko, Coolossal Head e This Time ha tentato, con uno sperimentalismo non sempre ben temperato ma sicuramente coraggioso, di adulterare i puri suoni degli strumenti tradizionali con sovraincisioni rumoristiche e massicce iniezioni di tecnologia. Ma se negli ultimi due dischi, precedentemente citati, - Kiko lo lasciamo fuori perchè tanto era un capolavoro - l'esperimento risultava a tratti acefalo e spuntato, con Good Morning Atzlàn funziona davvero molto bene quando c'è. In questo disco, comunque, la band sembra anche recuperare parecchio un marcato impasto roots - rock come per Done Gone Blue che è puro rock sferragliante e fiammato con chitarre assassine, o per Luz de mi Vida, un groove latino alla Lobos di quelli da restare a bocca aperta spolverato d'errebi, o Good Morning Atzlàn in cui le chitarre aggrediscono il pezzo dalla prima nota e lasciano che la melodia si dibatta nervosa e stordente in un altro rock lercio e indemoniato con un Rosas assolutamente implacabile. The Big Ranch è una ballata elettrica supervitaminizzata e molto corale, di sicura presa, però è vero che il cuore del disco è proprio Malaquè: un incrocio fra musica tradizionale e lifting tecnologico che anzichè soffocare la melodia la leviga con onde liquide e sognanti che ricadono lente sulla voce di un Hidalgo in stato di grazia. I vari overdub ed il drum programming non svuotano la canzone ma esaltano la bellezza delle chitarre creando un andamento cadenzato e rarefatto che lascia galleggiare isole compresse d'aria in cui gli strumenti tradizionali ricamano una melodia quasi in lontananza. Il traditional intarsiato di tecnologìa dà pregevoli frutti anche in Tony y Maria, ballata desertica con la polvere alla gola e un violino al centro della canzone a regalare note antiche e ingiallite. Concludendo Good Morning Atzlàn è una perfetta istantanea dei Lobos di questi ultimi anni: un suono più raffinato che in passato, ancora in grado di graffiare specie negli episodi più veraci e istintivi, ma con l'acquisita capacità di far musica di altissimo profilo anche nei territori più lontani dalle loro "riserve di caccia".
(Matteo Strukul)

www.loslobos.org