"I'm
so hard pressed, my mind tied up in knots ,I keep recycling the same old thoughts":
la genesi dell'ultimo album di Bob Dylan è tutta in questo verso di Someday
Baby. Dylan si sente stanco, sente di non avere più nulla da dire se non rimestare
vecchi versi e riciclare vecchi giri blues e liquida Modern Times
ammettendo candidamente davanti ai giornalisti di registrare di malavoglia gli
album in studio. Nessuna sorpresa: il Dylan di questi anni è un altro personaggio
rispetto a quello miticamente chiuso e scorbutico del passato: ha frenesia di
raccontarsi (vedi "Chronicles" o il film "No Direction Home"), sente un bisogno
continuo di avere un contatto diretto con il proprio pubblico (è in tour da ormai
17 anni senza mai un attimo di sosta…) e soprattutto si concede ogni tanto anche
alle celebrazioni. Questo essere diventato un personaggio pubblico a tutti gli
effetti ci ha regalato forse quel calore che in passato ci aveva fatto mancare,
ma ci ha anche fatto perdere quella sua sfera intima che aveva reso le sue confessioni
sentimentali immortali. "I've already confessed - no need to confess again"
taglia corto ancora una volta Dylan in Thunder on the Mountain, poi però
confessando che "I've been sittin' down studyin' the art of love, I think it
will fit me like a glove, I want some real good woman to do just what I say" ci
rivela l'impossibilità di trovare la partner perfetta. Parte forse dalla mancanza
di una nuova Suzie, o una Sara o una Joan, la forte disillusione che pervade il
disco, e forse anche la sua scelta di vita on the road, lontano da una casa che
non ci racconta e descrive più da tanto tempo perché forse non ha più. I tempi
moderni dylaniani sono questo: fredde e rabbiose emozioni, raccontate in lunghi
fiumi di parole (le canzoni viaggiano sulla media di 6-7 minuti l'una) dove affiorano
amori tormentati dalla totale incomunicabilità, temporali, argini che si rompono,
affari che vanno male,…. E' bastato l'incipit "sociale" di Workingman's Blues
#2 a far gridare ad un ritorno alla protesta: ma il proletario in questione
è solo un altro personaggio disilluso e fuori dal tempo che combatte contro quelli
che "will tear your mind away from contemplation, They will jump on your misfortune
when you're down". L'impossibiltà alla contemplazione è dunque la vera tragedia
dell'uomo moderno, la stessa che secondo Dylan ha portato la musica odierna a
non curarsi più delle sfumature, tutto amalgamato in un piattume a cui sembra
arrendersi pure lui nel momento in cui decide di fare a meno di quell'abile artigiano
delle sonorità che è Daniel Lanois per una scarna ed essenziale autoproduzione
sotto il falso nome di Jack Frost. Modern Times è un altro
viaggio a ritroso nella storia della musica americana attraverso il blues di Elmore
James e lo swing dei jazz-crooners degli anni '40. Un viaggio intrapreso già in
Love and Theft e che qui si perfeziona anche rispolverando la vecchia abitudine
di accreditarsi brani tradizionali (Rollin and Tumblin, Nettie Moore)
inserendo un proprio testo. Quello che spiace è che in questi 60 minuti abbondanti
di parole resti poco spazio per la pur valida band, relegata al puro ruolo di
accompagnamento e limitata a sporadici e non memorabili interventi. Ma restano
le canzoni, alcune davvero grandi (Ain't Talkin' e Workingman's Blues #2
entrano di diretto nell'olimpo dei suoi capolavori), altre semplicemente normali,
in ogni caso tutte sentite, volute e non buttate lì malamente a riempire il disco
come spesso ha fatto nelle sue opere minori del passato. Modern Times è un disco
importante, perché chiude il cerchio su molti aspetti del personaggio Dylan e
in futuro per parlare della sua opera non potremo prescindere da queste canzoni.
(Nicola Gervasini) www.bobdylan.com
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